sabato 22 maggio 2010

In morte di Edoardo Sanguineti

La morte di Sanguineti mi ha colto di sorpresa: alla sprovvista, direi. Come a volte fanno i nonni, che scompaiono senza avvertire. Una morte veloce, con un sospetto di malasanità: bene, mi dico, morendo si può ancora denunciare qualcosa. Perché cos'è stata la poesia di Sanguineti se non questo? 
Denuncia. Una denuncia che non conosce colpevoli, una denuncia che non minaccia di "fare i nomi" come le invettive pasoliniane, una denuncia che denuncia soprattutto se stessa, perché vuol essere soltanto il richiamo alla critica: alla critica della vita e ad una vita della critica. I colpevoli ci sono, basta volersi fare "aspiranti materialisti storici" - come amava definirsi, con affabile lucidità, Edoardo - per scoprirli in una borghesia italiana che "sogna ancora".
Ecco: sogno. Sogno e psicanalisi, invevitabilmente. Psicanalisi non come cura quanto come critica, come esercizio illuministico della ragione, tentativo di strappare un sentiero alle giungle che ci popolano. La denuncia dev'essere un risveglio: tornare sui propri sogni per criticarli, con l'amica dialettica.
Ma se c'è critica, allora, almeno da due secoli, per chi volesse fare poesia, questa critica dev'essere prima di tutto critica della propria poesia e della poesia in quanto tale. A meno di non volersi nascondere dietro un dito, bisogna ammettere che la poesia gode di un'inutilità malata, oggi come oggi, a meno di non trasformarsi direttamente in un prodotto culturale che gode il prestigio delle nicchie di mercato: costa tanto e vende poco.
Sto parlando proprio male, vediamo di ricominciare: per chi volesse, superati i diciottanni, scrivere poesie, è necessario pensare che cosa mai sia quella poesia. Personalmente ho scelto: una poesia quotidiana. E ho scelto proprio leggendo, in tempi di università, Sanguineti (e altri).
Incredibile quante cose si nascondano dietro questa definizione. In primo luogo significa criticare i propri giorni, giorno per giorno, o quasi: perché prendere "il piccolo fatto vero, possibilmente di giornata" significa strappare al continuum della vita un momento e straniarlo, straniarlo dal costruito disegno significante in cui e da cui siamo vissuti: perché davvero di una vita, restano in fondo pochi aneddoti, qualche battuta, alcuni momenti. La poesia allora diventa una specie di diario in pubblico, un gioco di autoanalisi, un contropelo esibito, in cui l'io deve avere il coraggio di presentarsi anche in modo spiacevole o banale. 
Fare questo significa anche che questa critica deve passare attraverso una critica del linguaggio, se è vero che nel linguaggio riposa la forza del pensiero dominante: pensiamo solo al valore che ha assunto la parola "rumeno" tra i nostri giovani, trasformandosi nell'odierno surrogato del "negro" simbolico del razzista medio; critica del linguaggio che deve prima di tutto colpire la poesia stessa, il "poetese" contro cui, per sessantanni Sanguineti si è scagliato: significa insomma spezzare il nodo magico a cui ancora siamo vincolati della spettacolarizzazione di una vita tesa all'arte (è il meccanismo base del sistema televisivo) perseguendo piuttosto un'arte vitalizzata all'interno della vita. Diventa allora centrale l'amore, amore fedele o infedele per la moglie, che attraversa l'intera opera di Edoardo: se da giovani si può scrivere che il matrimonio diventa una "cellula di resistenza", vivendo l'amore si declina in tutto un paradigma di situazioni, distanze, tradimenti, esplicitamente banali, quotidiani, matrimoniali. 
E' forse l'amore uno dei campi in cui più è necessario smontare le sovrastrutture imperanti: smontare il linguaggio riducendolo a parole d'amore che siano concrete, smontare l'amore nell'eros, nel corpo, nel piacere. Rimettere l'eros al centro dei nostri scambi simbolici, spezzando l'incanto dello spettacolo che con l'eros gioca perpetuamente, ma in modo mediato, bisbigliando all'inconscio il richiamo continuo di nuovi inesauribili (perché non soddisfabili) desideri. 
La sto facendo lunga: non è facile racchiudere tutto in poche righe.
Per tirare le somme, chiariamo una volta per tutte che l'operazione di Sanguineti è un'operazione d'avanguardia, intesa proprio nella sua posizione dialettica rispetto alla forma spettacolo: da una parte abbiamo il montaggio di frammenti alla ricerca (con la promessa) della costruzione di un senso unitario, totalitario: la mia vita è stata questa, ed eccone il riassunto con colonna sonora. Dall'altra abbiamo invece i frammenti, straniati e straniti, non brandelli di rivelazione ma piccoli strappi in una tela che si vuole perfetta ma che possiamo sentire, tutti, giorno dopo giorno, insoddisfacente.
E' poesia questa borghesemente limitata, ovvio: per questo serve l'avanguardia. L'estetica è politica, come del resto ogni altra manifestazione culturale: politica nel senso di storica, mutevole, e per questo determinata da continua dialettica. Politica nel senso che la critica deve rivolgersi all'addestramento culturale a cui siamo sottoposti, addestramento che passa per la nostra vita materialmente vissuta, ed ecco l'esigenza di farsi "aspiranti materialisti storici", e per il nostro linguaggio e immaginario, ed ecco la necessità di farsi poeti.
Un giorno la poesia sarà scritta da tutti: non era questo il sogno dell'avanguardia? 
Questo vuol dire che dovrà cambiare anche il nostro concetto di poesia. 
Internet ci sta aiutando molto, se riuscissimo a sottrarci alle esigenze pubblicitarie del fascino. 
Morire, chiudendo per sempre un discorso, sembra, ottocentescamente, porre il punto da cui costruire (paesaggisti e urbanisti servirebbero) l'autenticità di una vita vissuta: non è questo che vorrei. Morire non porta la conclusione tanto cercata, spiacente.
Se conclusione ci sarà, sarà gioia e rivoluzione.
Due cose appena: "non ho creduto in niente" e "me la sono goduta, io, la mia vita".

E ora, resta il lavoro da fare.

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"e dico che una poesia si corregge con un'altra poesia, un corollario con un codicillo):" (E.Sanguineti)

E allora, cosa aspettate? Le parole chiamano parole...