sabato 6 novembre 2010

Ricordando l'ortica.


Sono naufragato nei tuoi occhi
mentre percorrevo una strada
stracolma di parole d'amore:
tu hai tirato sale nei miei occhi
scuotendo i tuoi come stupita
della tua intrepida pesca.

Oggi non sai più se torni od esca
da questo tuo liquido mondo sdrucciolo
dove m'annuvolo talvolta e scivolo.

Il tuo sale bruciava volteggiando via
dai tuoi capelli dalle punte dei tuoi seni
accecando i miei occhi che non sapevano
distinguere né porre confini.

E io ripenso oggi all'ortica, mia amica:
oggi che penso alla morte e alle torte
di mele, di sere andate buone per accendere
gli occhi - ma dei ricordi, di tanti ricordi,
mi accorgo che ho imparato a scordare tutto
che in fondo l'esperienze non esprimono più niente
o quasi, un riflesso opalescente di qualcosa
praticamente inconsistente -
proprio oggi, nel mezzo del cammina di nostra vita,
mia dolce infinita amica, ripenso all'ortica.
Avevo i calzoni corti, e jeans tagliati a forbice,
da vero maschio di un metro e mezzo,
e, di solito per recuperare un pallone, ma anche
per semplice imperizia o ingenuità,
nell'erba che sembra tutta uguale
- chi distingue più come certi vecchi,
questo si mangia, questo no: abbiamo ceduto
la saggezza per un barlume di libertà -
spuntava improvvisa ed imprevista
una feroce ortica.

E poi a farne mazzetti come fruste
per giocare a farci male, anche.

Ripenso al bruciore.
Prima sui polpacci. Verso le ginocchia.
E forse anche le mani, gli avanbracci.
Onde di prurito che diventa quasi dolore.

Così lo ricordo.
E tu che mi hai gettato sale negli occhi
quando sono emerso tra i miei sbuffi
d'annegato: ora sai il bacio dell'ortica
sulle cosce, lungo la tua schiena,
a sfiorarti il collo, le spalle,
brividi persistenti oltre il normale.

Eppure, quel corpo che, in un gioco
di veleno, si tingeva di rosso
aveva sangue per farne di cose.





Amare l'amore o d'amare more
il sapore? Equilibristi
in distanti momenti intimistici:
mistici nel corpo teso che esplode
nel rumore dell'ore, nell'ode
a questo strampalato amore.

Dov'è l'equilibrio?
Nella reciprocità in bilico
tra rispetto e libertà?
Nella fedeltà o nell'idea di quello che sarà?
E i folletti ci mettono un carico
da una parte e dall'altra della bilancia:
lentamente l'amore prende la rincorsa
e rapidamente poi si slancia.
D'altra parte lentamente la borsa
è aperta e il contenuto inevitabilmente
inventariato e contato.

La felicità è una cosa che si sconta
e si paga sul momento: non si fa credito.
Il debito diventa l'onta
patita: ma non esiste colpa:
non si tolgono alcune macchie dal vestito
senza alterare il tessuto.
Senza modificare irrimediabilmente il vissuto.
E aspettare domani, o dopodomani
per goder delle tue mani
vorrei dire: aspetterò sempre
su questa panchina.
E persin l'attesa mi sarà divina.

martedì 5 ottobre 2010

Pupazzi di neve

PUPAZZI DI NEVE


Di notte nel bosco c’è un uomo di neve
Ch’è triste e che piange, e un poco si squaglia
Perché finisce l’inverno di gelo, e deve
Al più presto scappare, perché ha una taglia
Sulla sua testa fredda di uomo di neve
E deve fuggire che arriva l’estate
E sbocciano le foglie e i bimbi certe sere
Mentre risuonano le fucilate
Di un sole che ride cattivo, crudele
Di un caldo assassino e una commozione
Involontaria e innaturale. Intanto le mele
Hanno già una loro idea di maturazione.

Mi sciolgo, mi squaglio, si ripete
E un pettirosso si siede sul suo naso
Che crolla. Mettetemi al fresco.
Ora è acqua nelle sorgenti cieche
S’è sciolto e sarà uno spruzzo in un vaso.
Scusate il finale così libresco.




domenica 19 settembre 2010

Campo dei fiori in un giorno d'estate.

“Campo coi Fiori”

Le signorine piccine sono minime
Farfalline da appendere ai chiodi: il concetto
Di infinito apre gli infiniti mondi e allora
Tu infinitamente vai e torni. L’amore
Si gusta meglio alla fine di un bilancio fallimentare:
ma se infinitamente ti conosco nei tuoi
occhi di bosco e bui, abituati al lavoro: vedo
saltare per aria il decoro
nelle tue tette nane, nelle tue sottane
che sollevi di scatto fino alle stelle,
dove la statua che è morta qui davanti
Bruciando lascia cenere e fumo.


Quando le gambe schiudi suona l’alba
Come il gong del pugile suonato, stonato
Dormo appeso ai tavolini, alle sedie,
lontano i campi ondeggiano al vento nel grano
e piano dorme il formicaio su cui passo:
il ghiaccio che muore gocciolando e una boccia
dove in compagnia di pesci troppo strani mi
rinfresco nella birra, nei sogni lontani;
ma il tempo infinitamente rincorrendosi porta
dispersi velieri su strette gonne
a naufragare qui dove si frantumano
i ghiacciai. E Bruno dorme appeso
e spia così come guardo io andar via
i miei spiccioli di sogni le carte della nostalgia
per tutto questo infinito incominciare
il disagio delle vite che mi mescolano nelle sviste
nella vista della statua che adesso sono
infinitamente leggero e oltre, sempre
portato via sprofondando annaspando lunghi
deserti di impauriti animali nelle tue orbite
aggirandomi come un cane di notte
sul tuo collo e i tuoi vividi lividi
brucio nel vento contento: bruno
come un orso sono volato voltando le foglie
nell’azzurro del cielo, uno straniero
dentro di me diventa me mentre
infinitamente comincio a fermarmi
in questa festa soffusa in questa illusa
resa, deponendo le armi: bruciatemi pure
regalando alla mia confusa esibizione
le sane verdure del mio cuore
infinitamente in amore.

Chi vuole pecorino?

"Chi vuole pecorino?"

Chi vuole un grappino, chi vuole un salatino
chi vuole un neutrino, chi vuole capire un bambino?

Chi vuole persino, che vuole un soldino
che vuole un secondino, che vuole percorrere il cammino?

Chi vuole un bambino, chi vuole un tombino
chi vuole un casino, chi vuole ballare al mattino?

Chi vuole un fratino, chi vuole un fratellino
chi vuole Plotino, chi vuole montare un fantino?

Chi vuole un delfino, chi vuole un pinguino
chi vuole l'uomo carino, chi vuole cominciare il casino?

Chi vuole un ombrellino, chi vuole un saltino
chi vuole un cotechino, chi vuole mangiare un pochino?

Un verso diverso:
non è detto che la puttanesca mi riesca.
Quel che è detto è fatto: quel che è fatto è detto:
perfetto è solo il difetto.

Chi vuole, pecorino?

sabato 11 settembre 2010

L'ammazzatopi.


Cerco il tropo giusto per cantare il topo
che ha pagato cara una cagata
tra le mie posate riposate.

Della sua insistenza mi domando lo scopo
come di questa mia cantata improvvisata:
spaventare donne non sposate?

Attaccarci malattie mortali
a noi malati morali?
Rubarci, spendendo tutto il suo coraggio,
una misera crosta di formaggio?
Scaldarsi dentro un vecchio divano?
Mi domando ancora: cosa c'è di vano?

Esiste il veleno, da signora borghese,
che muore stretta nelle spese,
esiste la scopa che non coglie nel segno,
delle fughe mi sfugge il disegno;
esiste, come un cartone animato, la trappola a molla
ma veramente fatale fu solo la colla.

Non è mai detto che l'esca riesca
nel suo intento: come questo componimento:
né formaggio né salame hai apprezzato davvero
e neppure un biscotto, né spezzato né intero.

Nel silenzio della notte tu andavi 
a cercare una misera penna Barilla
che avevi rubato e scordato nella fuga.

Tu, preda del gatto come i tuoi avi,
per una pasta industriale, l'ultima stilla
di vita hai dato alla colla che asciuga.

E io, uomo elevato, scopro la preda
in te, la natura in me: la morte
è un gesto di pietà: la libertà
che ho si esaurisce nel gesto che seda.

La pasta Barilla e il topo che strilla: tale la sorte.

Sei scappato, ti sei arrampicato, hai lottato,
hai cercato, hai tentato, hai saltato, hai scalato,
hai morsicato, hai scalciato, hai...

ti sei trascinato nell'angolo buio
per morire da solo, impastato 
come oggi mi sento impastato io
negli impicci di questa vita di casa soldi lavoro.

Nella lotta i due lottatori sono pari e si corrispondono
in coraggio e dignità: solo questo permette la lotta.
Ho vinto: in casa ritorna la quiete chimica del detergente,
dell'amica ammoniaca. Non avevamo scelta, come sempre.
Io uomo libero mi scopro determinato esattamente come te.
E tu, finendo solo per sbaglio nella trappola, 
ti sei dimostrato sveglio e prudente: eri un topo
evidentemente
che aveva imparato che il formaggio non cresce sul pavimento,
né i biscotti né il salame, e questa è sempre una buona lezione.

Porto in te il tuo grido che è anche mio.

Se la morte è una faccenda di dignità,
sorcetto mio, mi hai insegnato cos'è la libertà.

venerdì 13 agosto 2010

Manifesto degli insegnanti

Il manifesto

1. Amo insegnare. Amo apprendere. Per questo motivo sono un insegnante.
2. Insegnerò per favorire in ogni modo possibile la meraviglia per il mondo che è innata nei miei alunni. Insegnerò per essere superato da loro. Il giorno in cui non ci riuscirò più cederò il mio posto ad uno di loro.
3. Insegnerò mediante la dimostrazione e l'esempio, il riconoscimento dei miei errori illuminerà il mio percorso.
4. Accompagnerò i miei alunni alla scoperta della realtà che li circonda, assecondando e stimolando in ognuno di loro la curiosità e la ricerca, le domande e la passione.
5. Non potendo trasmettere ai miei studenti la verità, mi adoprerò affinché vivano cercandola.
6. Incoraggerò nei miei studenti l’impegno e la volontà di migliorarsi costantemente e di non rassegnarsi mai di fronte alle difficoltà. Io stesso provvederò a formarmi e aggiornarmi continuamente.
7. Farò in modo che la scuola sia il mondo, e non un carcere.
8. Non trasmetterò ai miei studenti saperi rigidi e preconfezionati. La mia visione del mondo mi guiderà, ma non sarà mai legge per loro. Il dubbio e la critica saranno i pilastri della mia azione educativa.
9. Promuoverò lo studio per la vita e contrasterò lo studio per il voto.
10. Raccoglierò elementi di valutazione, rifiutando approcci semplicistici e meccanici che non tengano conto delle situazioni di partenza, dei progressi, dell’impegno e della crescita complessiva del singolo alunno.
11. Lotterò affinchè la scuola sia la scuola di tutti, la scuola in cui ogni studente possa apprendere seguendo tempi e tragitti individuali. Farò in modo che i miei studenti mi scelgano e non mi subiscano.
12. Aiuterò i miei alunni a illuminare il futuro leggendo il passato e vivendo in pienezza il presente. Li aiuterò a stare nel mondo così com'è, ma non a subirlo lasciandolo così com'è.
13. Resterò fedele a questi punti in ogni momento della mia azione educativa, pronto ad affrontare e superare tutti gli ostacoli formali e burocratici che si presenteranno sulla mia strada.

Manifesto degli insegnanti

1. Amo insegnare. Amo apprendere. Per questo motivo sono un insegnante.
2. Insegnerò per favorire in ogni modo possibile la meraviglia per il mondo che è innata nei miei alunni. Insegnerò per essere superato da loro. Il giorno in cui non ci riuscirò più cederò il mio posto ad uno di loro.
3. Insegnerò mediante la dimostrazione e l'esempio, il riconoscimento dei miei errori illuminerà il mio percorso.
4. Accompagnerò i miei alunni alla scoperta della realtà che li circonda, assecondando e stimolando in ognuno di loro la curiosità e la ricerca, le domande e la passione.
5. Non potendo trasmettere ai miei studenti la verità, mi adoprerò affinché vivano cercandola.
6. Incoraggerò nei miei studenti l’impegno e la volontà di migliorarsi costantemente e di non rassegnarsi mai di fronte alle difficoltà. Io stesso provvederò a formarmi e aggiornarmi continuamente.
7. Farò in modo che la scuola sia il mondo, e non un carcere.
8. Non trasmetterò ai miei studenti saperi rigidi e preconfezionati. La mia visione del mondo mi guiderà, ma non sarà mai legge per loro. Il dubbio e la critica saranno i pilastri della mia azione educativa.
9. Promuoverò lo studio per la vita e contrasterò lo studio per il voto.
10. Raccoglierò elementi di valutazione, rifiutando approcci semplicistici e meccanici che non tengano conto delle situazioni di partenza, dei progressi, dell’impegno e della crescita complessiva del singolo alunno.
11. Lotterò affinchè la scuola sia la scuola di tutti, la scuola in cui ogni studente possa apprendere seguendo tempi e tragitti individuali. Farò in modo che i miei studenti mi scelgano e non mi subiscano.
12. Aiuterò i miei alunni a illuminare il futuro leggendo il passato e vivendo in pienezza il presente. Li aiuterò a stare nel mondo così com'è, ma non a subirlo lasciandolo così com'è.
13. Resterò fedele a questi punti in ogni momento della mia azione educativa, pronto ad affrontare e superare tutti gli ostacoli formali e burocratici che si presenteranno sulla mia strada.




Per altre informazioni: www.manifestoinsegnanti.it

mercoledì 11 agosto 2010

Ryszard Kapuscinski, In viaggio con Erodoto



Ryszard Kapuscinski, "In viaggio con Erodoto"

Ho appena terminato la lettura di questo libro: lo consiglio immediatamente.
E' scritto male, questo è il punto. E' un libro squilibrato e scentrato, sembra una bicicletta a cui andrebbero tirati i raggi, ma per fortuna è questo il bello.
Sembra quasi di leggere veramente una specie di diario: la biografia, l'appunto personale, si intreccia al rapporto con le "Storie" di Erodoto. 
Ultimamente mi sento sempre più attratto verso questo genere di libri in cui manca l'ossessione per il bilanciamento formale e si lascia spazio per l'appunto, l'annotazione, l'intuizione e lo schizzo.
Il punto che tiene in piedi il libro è la figura del reporter: come Kapuscinski apprende ad essere reporter - e verso la fine del libro lo seguiremo addirittura dietro ad uno scoop grazie alla soffiata di un ambasciatore ribelle - così Erodoto è riletto, a mio parere in modo convincente, come reporter dell'antichità.
Siccome mi sembra quel genere di libro che non entra mai nelle scuole, ove si costudisce la lanterna spenta del formalismo classicheggiante, mi piacerebbe leggerne stralci in classe, e così li riporto qui, a mo' di antipasto.

Uno dei problemi fondamentali per un reporter è la differenza culturale: nell'autore questo significa fare i conti con il marchio di essere reporter "comunista" in quanto polacco: ecco come se ne rende conto durante il suo scalo a Roma, durante il primo viaggio fuori dalla Polonia della sua vita: 

"Cominciai a girare per i negozi scortato dalla moglie di Mario. Per me quelle spedizioni erano vere e proprie scoperte. Tre cose, soprattutto, mi lasciavano di stucco. La prima, che i negozi fossero pieni, anzi rigurgitassero di merci ammassate su ripiani e banconi straripanti in torrenti colorati sui marciapiedi, le strade e le piazze. La seconda, che le commesse non stessero sedute ma in piedi, gli occhi fissi sulla porta d'ingresso. Era strano che restassero in piedi in silenzio invece di sedersi a chiacchierare tra loro. Le donne hanno sempre tante cose da dirsi: litigi con il marito, problemi con i bambini, i vestiti da mettersi, la salute, l'arrosto bruciato. Quelle là, invece, davano l'impressione di non conoscersi e comunque di non avere nessuna voglia di chiacchierare. La terza sorpresa stava nel fatto che i commessi rispondessero alle domande che ricevevano. Rispondevano con frasi complete e, alla fine, ti dicevano anche: grazie!
[...]
La sera mi azzardai a uscire da solo. Il mio albergo doveva trovarsi in una zona centrale, perché dalla vicina stazione Termini, lungo via Cavour, raggiunsi piazza Venezia per poi, attraverso vicoli e vicoletti, tornare nuovamente alla stazione. Non degnavo di un'occhiata le architetture, le statue e i monumenti: mi affascinavano soprattutto i bar e i caffé. I marciapiedi traboccavano di tavolini con gente seduta a bere e chiacchierare, o semplicemente a guardare i passanti. Dietro stretti e alti banconi i barman mescolavano bevande, preparavo cocktail, servivano caffè. Dappertutto si aggiravano camerieri, portando calici, tazze, bicchieri, con un abilità da giocolieri: l'unica volta che avevo visto qualcosa di simile era stato in un circo sovietico...
Adocchiato un tavolino libero in uno dei bar mi sedetti e ordinai un caffè. Dopo qualche tempo mi accorsi che la gente mi sbirciava di sottecchi: indossavo un abito nuovo, con una candida camicia italiana e una cravatta a pois, ma evidentemente il mio aspetto, i gesti, il modo di stare seduto e di muovermi bastavano da soli a tradire la mia provenienza da un altro mondo. [...] Il vestito nuovo non riusciva a nascondere la mia formazione e il mio marchio d'origine. Mi trovavo in un mondo stupendo ma, come mi faceva notare quella gente, lì dentro ero un elemento estraneo."

Viaggiare significa lasciare che le culture si incontrino: per questo serve un terreno comune, e lavoro e fatica. Serve, ci spiega K., soprattutto capire la lingua dei posti in cui ci si trova, ed è divertente pensare che questo giramondo abbia avuto tante difficoltà con l'inglese, come veniamo a sapere durante il suo viaggio in India: 

"Giravo per la città annotando le scritte sulle insegne, i nomi delle merci nei negozi, le parole colte al volo alle fermate dell'autobus. Nel buio dei cinema copiavo alla cieca i sottotitoli dello schermo, per strada mi segnavo gli slogan degli striscioni portati dai dimostranti. Arrivavo all'India non attraverso le immagini, i suoni, gli odori, ma attraverso la lingua. Una lingua per giunta non originaria del luogo, una lingua estranea ed imposta dall'esterno, ma talmente radicata da diventare una chiave indispensabile, anzi da identificarsi addirittura con il paese stesso. Il primo round della mia lotta con l'India si svolse sul terreno linguistico. Capivo che ogni mondo aveva il proprio segreto e che la sola chiave per accedervi era la lingua. [...] Inoltre mi ero reso conto di un nesso tra i nomi e le cose: una volta rientrato in albergo, mi accorgevo che in città avevo notato solo ciò di cui conoscevo già il nome. [...] Avevo capito, insomma, che quante più parole avessi conosciuto, tanto più ricco, pieno e variegato mi sarebbe apparso il mondo in cui mi trovavo."

Ecco: conoscere la lingua per conoscere le cose. Qui si apre tutto un possibile discorso sulla traducibilità e sul rapporto tra le parole e le cose, ma vi rimando a semiologi più ferrati di me, che diamine, è agosto e ho voglia di leggerezza!
Ma è ora che appaia in scena Erodoto:

"Erodoto inizia una sua narrazione con una frase di spiegazione sui motivi che l'hanno indotto a scriverla: -Questa è l'esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e, inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro.-
In questa frase sta la chiave del libro.
Innanzitutto Erodoto ci informa di aver condotto delle ricerche. Oggi sappiamo che vi dedicò l'intera vita. Per quale ragione? Come mai, da giovane, prese una decisione del genere? Erano indagini compiute su suggerimento o per conto di qualcuno? [...] O forse faceva tutto da solo, divorato dalla febbre del conoscere, incalzato da un'ansia inesplicabile e oscura? [...]
Erodoto ammette di essere ossessionato dalla memoria. Sa che la memoria è qualcosa di fragile, instabile, addirittura illusorio. [...] Senza memoria non si vive: ma la memoria, pur innalzando l'uomo al di sopra dell'animale e determinando la conformazione della sua anima, è inafferrabile e traditrice. E' questo a rendere l'uomo così insicuro di sé. -Aspetta un momento, era il...- -Ma si! E' stato nel... Aspetta, quando è stato?- Non ricordiamo più e dietro a questo non ricorda si spalanca la zona dell'ignoranza, ossia della non esistenza.
L'uomo moderno non si preoccupa della sua memoria, attorniato com'è dalla memoria immagazzinata. Ha tutto a portata di mano: enciclopedie, manuali, dizionari, compendi. Biblioteche, musei, librerie ed archivi. Cassetta audio e cassette video. Internet. Riserve inesauribili di parole, di suoni e immagini conservate in case, magazzini, cantine e soffitte. Se è un bambino gli insegna tutto la sua maestra, se è uno studente, ricorre al professore.
Nessuna, o quasi nessuna di queste istutuzioni esisteva al tempo di Erodoto. L'uomo sapeva soltanto ciò che la sua memoria riusciva a trattenere. Se si vuole conoscere ciò che è stato memorizzato, bisogna consultare l'uomo. Se quest'uomo vive lontano, dobbiamo metterci in cammino, raggiungerlo e, una volta trovato, sederci ad ascoltare ciò che ha da dire. E' così che nasce un reportage."

Ecco quindi: memoria, e incontro tra uomini. Sentiamo come va avanti questa descrizione di Erodoto:

"Erodoto quindi viaggia per il mondo, incontra altri uomini e ascolta quello che hanno da dirgli. Raccontano chi sono, narrano la propria storia. Ma come fanno a sapere chi sono? Per averlo sentito dire da altri, in primo luogo dai loro antenati. Allo stesso modo che quelli hanno trasmetto loro la propria conoscenza, loro la trasmettono ad altri. La conoscenza assume la forma dei racconti. Ci si siede attorno a un fuoco e si racconta."

Ed ecco che la memoria si appaia al fuoco, col suo eterno divenire e consumare: la narrazione è come una fenice che si consuma per poter poi rinascere.
Ma in Erodoto troviamo qualcosa in più, qualcosa che appare per la prima volta e che ce lo fa studiare ancora oggi come il padre della "Storia":

"Ci vuole un bel coraggio, una bella consapevolezza della propria importanza e della propria missione per dichiare di stare facendo qualcosa da cui dipende che "le imprese degli uomini non siano dimenticare." 
Le imprese degli uomini! 
Come faceva a conoscere l'esistenza di una cosa del genere? Il suo predecessore, Omero, aveva descritto la storia di una sola guerra, quella di Troia, seguida dalle avventure di un viaggiatore solitario, Ulisse. Ma "le imprese degli uomini"? Siamo di fronte ad un modo di pensare nuovo, a un nuovo conceto, a nuovi orizzonti. [...] L'autore delle "Storie" esordisce subito come un visionario del mondo, un creatore capace di pensare su scala planetaria: in una parola, come il primo globalista della storia."

La storia è un prodotto della fantasia: esattamente come la fisica del XX secolo, nella quale prima si immaginano le cose come stanno, poi si cerca di trovare un modo per verificare se quella fantasia trovi dei riscontri. Si tratta di spostarsi ad un livello più alto, per abbracciare meglio l'insieme delle cose: e non pensiamo che per farlo basti avere l'accesso ad una quantità enorme di notizie: internet è uno strumento, ma bisogna sviluppare la capacità di utilizzare quello strumento, costruendoci sopra una cultura adatta che sia in grado di decodificare e gestire la mole di informazioni che ci arrivano dal mondo. La globalizzazione non ha ancora strutture mentali adeguate, specie per noi del mondo ricco, incapaci di accogliere e comprendere le schegge delle culture altre che entrano e reagiscono, in senso quasi chimico, con noi. Erodoto per la prima volta vede la storia come un prodotto del mondo: non più eroi, in scena, perché non è più una narrazione di persone: le persone, i personaggi, sono crtamente centrali, ma ciò che mette in moto gli eventi dev'essere da qualche altra parte. Per arrivare a spiegare che risiede nell'economia servianno un paio di migliaia di anni ancora. E non è un caso, penso, che tale allargamento di prospettiva sia avvenuto in Grecia:

"Erodoto era figlio della sua cultura e del clima propizio all'uomo che le aveva fatto da culla. Era la cultura delle grandi tavole imbandite, dove ci si siede in gruppo nelle calde sere estive a mangiare olive e formaggio, bere vino fresco e chiacchierare. Uno spazio non racchiuso da mura ma aperto sul mare o su un pendio montano, atto a sviluppare l'immaginazione. [...] Per esistere l'uomo aveva bisogno della presenza di un altro uomo, di vederlo e sentirlo: non si davano altre possibilità di comunicazione e quindi altre possibilità di vita. [...] Sapevano che l'Altro non era solo colui che li aiutava a procacciarsi il cibo e a difendersi dai nemici, ma anche l'essere unico e insostituibile capace di spiegare il mondo e di fare loro da guida."

Non aggiungo parole, mi limito a saltare un po' di pagine:

"Erodoto è il primo a rendersi conto che la caratteristica fondamentale del mondo sta nella sua molteplicità. Tutta la sua opera sembra dire ai greci: non siamo soli, abbiamo dei vicini e questi a loro volta hanno i loro e tutti insieme popoliamo il pianeta. Per un uomo vissuto fino ad allora all'interno della sua piccola patria di cui, volendo, poteva misurare il perimetro a piedi, questa nuova dimensione planetaria della realtà era una scoperta: cambiava l'idea del mondo, conferendole nuove proporzioni e stabilendo una scala di valori fino ad allora sconosciuta. Inotre Erodoto, viaggiando e raggiungendo popoli d'ogni genere, vede e annota che ognuno di essi ha una sua sotria indipendente ma, nello stesso tempo, parallela alle altre: vede cioè che la storia dell'uomo somiglia a un calderone in continua ebollizione, dove innumerevoli particelle, rotanti ognuna nella propria orbita, si incontrano e si incrociano in una serie infinita di punti."

Peccato che questo modo di vedere le cose sia stato spazzato via dalla storia, proprio perché la storia non si fa con i libri di storia ma con l'economia: l'imperialismo romano e il centralismo cattolico sono la sorpresa imprevedibile per Erodoto: imperialismo ben diverso da quello persiano, e da cui, secondo me, abbiamo ereditato i due millenni di storia che studiamo nelle scuole, in cui ogni anche minimo incontro con l'altro ha prodotto soltanto spargimenti di sangue.
Come concludere allora? Dov'è finito quell'atteggiamento? Bene, sembra rispondere K.: nei repoter. E in effetti a me convince: ecco cosa ricerchiamo nei suoi libri o in quelli di Terzani, tanto per fare qualche nome. Pazzi viaggiatori che fanno il surf sulle onde della maretta della storia, quella a breve termine, quella dei quotidiani e delle preoccupazioni. Eppure, dietro a tutto questo c'è la lezione storica di Erodoto: osservare, chiacchiare, ricordare. Cercare di capire, ma non cadere mai nel tranello del cowboy texano che prima spara sul muro e dopo disegna il bersaglio. 
Ecco, per concludere, un esempio di K. sul valore di questa lezione, racchiusa in poche righe che obbligherei a leggere chiunque si metta in testa di voler fare il giornalista:

"Camminavo per la città, depresso e furioso contro Judi. Perché mi aveva indotto a partire? Che cosa ero venuto a fare ad Algeri? Che cosa avrei scritto, come avrei giustificato il mio arrivo? [...] Il mio taccuino era intonso: niente da registrare.
E invece proprio da quel soggiorno ad Algeri avrei imparato che, malgrado gli anni di esperienza giornalistica, stavo sbagliando tutto. Cercavo le immagini spettacolari, convinto che l'immagine potesse sostituire una comprensione più approfondita della realtà, che il mondo si potesse interpretare solo attraverso ciò che ci mostrava nell'ora della convulsione spasmodica, quando era scosso da spari ed esplosioni, avvolto dal fumo, dalle fiamme, dalla polvere e dal puzzo di bruciato; quando crollava in rovina e la gente disperata piangeva sulle spoglie dei propri cari.
Ma come si arrivava a drammi del genere? Che cosa ci dicevano quelle scene di distruzione piene di grida e di sangue? Quali forze, sotterranee ed invisibili ma nello stesso tempo possenti ed irrefrenabili, le avevano causate? Rappresentavano la fine del processo, o non ne erano che l'inizio, il preannuncio di ulteriori sviluppi, generatori di conflitti e tensioni? E chi li avrebbe seguiti, questi ulteriori sviluppi? Non certo noi, corrispondenti e reporter: appena sulla scena degli eventi si seppellivano i morti, si sgombravano le strade dalle carcasse delle macchine incendiate e dalla vetrine rotte, noi giornalisti facevamo fagotto e proseguivamo verso luoghi dove si incendiavano macchine, si spaccavano vetrine e si scavavano fosse per i caduti. [...]
Non potendo descrivere i carri armati, le auto incendiate e le vetrine infrante che non avevo visto, e volendo tuttavia giustificare il fatto di essere venuto ad Algeri, decisi di ricercare i retroscena e le molle segrete del colpo di stato per scoprire che cosa vi si nascondesse dietro e che cosa volesse dire. Il che significava parlare, osservare le gente e il luogo, leggere. In poche parole, cercare di capirci qualcosa."

Cercare di capirci qualcosa: Erodoto ancora oggi ci dimostra che spenderci anche una vita intera può sempre valerne la pena. 

lunedì 9 agosto 2010

Hans Christian Andersen, Lo specchio fantastico


Di ritorno dalle esigue ferie segnalo questo libro: devo però immediatamente avvertire che è un fuoricatalogo, pur essendo edito nel 2003. 
La cosa che più mi ha colpito sono gli acquarelli della Archipova, che colgono ed esaltano le fiabe di Andersen qui raccolte.
Cosa c'è da dire su questo libro?
A me sembra che sia sempre doveroso consigliare la lettura delle fiabe di Andersen, ma meglio anche di qualunque fiaba, a chiunque ci capiti a tiro. Questo per una serie di ragioni.
Comincio accampando una frettolosa diagnosi storica: lo smarrimento dalla capacità di narrare fiabe mi sembra essere l'allegoria perfetta di una crisi storica patita tra XVIII e XIX secolo, momento storico in cui, al di là delle vicende storiche, per la prima volta l'uomo perde il contatto con gli elementi più "naturali" del suo essere, bollati una volta per tutte come superstizioni. Penso setmpre più spesso che gli illuministi abbiano buttato il bambino con l'acqua sporca, anche se non bisogna dimenticare tutte le attenuanti storiche del caso. Comunque rimando rapidamente al saggio di Benjamin su Leskov per chiarire l'opposizione tra "racconto" come si è venuto a definire nell'800 e "narrazione".
E proseguo godendomi il rosso tramonto di Roma.
Leggere le fiabe rappacifica con le strutture elementari della narrazione: questo è sempre più utile visto che viviamo un'epoca in cui la sobrietà "classica" ed una spontanea semplicità sono spesso scalzate via dalla ricerca di strutture elaborate e colpi ad effetto. Con buona pace di formalisti russi e strutturalisti francesi, le fiabe ci ricordano che non serve strafare per dire qualcosa, a patto di avere qualcosa da dire, e questo qualcosa da dire non appartiene affatto all'autore ma al "naturale" decorso della fiaba stessa: decorso che è soprattutto implicitamente psicologico. In questo senso la fiaba ha ancora il potere di avvicinare ad una "religiosità" perduta, ad un folklore, ad un romantico spirito del popolo, ad una cultura non idealizzata né assolutizzata: parlo di religiosità in un senso che dovrebbe essere metto dialettica opposizione con l'affermarsi delle "religioni dello spettacolo" monoteiste.
Leggere una fiaba ci riconcilia dapprima con il gusto di leggere una storia, che è un gusto paragonabile a quello che si prova nel mangiare un frutto senza neppure lavarlo: ma poi una fiaba ci offre la possibilità di affrontare con simbolica delicatezza alcune questioni fondamentali ed eternamente operanti almeno quanto eternamente rimosse: egoismo vitale, bisogno d'amore, capricci di felicità.

Non volevo certo imbastire un trattato sul fiabesco: certo consiglio a chiunque si interessi di lettura o scrittura, per non parlare di insegnamento, di cercare qualcosa sul genere, visto che è stato già affrontato sotto molteplici aspetti, dallo psicanalitico al formalista.
Quello che in realtà mi ha spinto a recensire proprio questo libro è il fatto che ci siamo incontrati su una bancarella di un mercato ben poco libresco: ho così potuto comprare per 2 euro questo piccolo gioiellino, che se ne stava incastrato tra un infradito e le mozzarelle di bufala.

A volte l'occasione rende l'uomo ladro: altre volte l'occasione offre gustose ed economiche letture.

venerdì 30 luglio 2010

Notte di pioggia.


Notte.
Pioggia. Pioggia forte, orizzontale, ad allagare casa attraverso le finestre. Schiaffi. Testa nel ghiaccio.
Notte, dopo giorni di parole scortecciate, sbrindellate, ficcate nella gola, senza deglutire mai. Fantasmi annidati sotto il sole accecante, che morde i talloni e mette voglia di non star fermi mai, con i piedi, su questa padella che è la terra.
Mi rigiro: questa è la riflessione serale.
Conservo, da qualche parte, milioni di appunti per storie  mai scritte. Devono essere perse insieme ai libri che ho lasciato nelle scatole un trasloco dopo l'altro. E' l'instabilità che ci fa saldi in quest'epoca di sradicamenti? Ma tengo il pallottoliere sotto il naso e i conti non tornano mica: forse non sono abbastanza adulto?
Come i bambini ho le mani bucate e troppi capricci?
Un anno passato a girarmi i pollici: e voglia di sentirsi utile dentro i calzini, nascosta.
E la morte che si aggira come un randagio.
O forse una gatta guercia?
Il punto è che giorno dopo giorno, passano i mesi, e luna dopo luna, passano gli anni.
Un giorno, qualche tempo fa, mi sono detto: bene, sono cresciuto. E adesso cosa fare nei prossimi secoli da vivere?
Fumare e girarsi i pollici.
Ho voglia di costruire qualcosa.
O magari di riprendere vecchi appunti.
E smettendola di pensare, imparare a raccontare storie come si raccontano ai fanciulli.
C'era una volta un uomo che...

Come dice il poeta: cazzo, si invecchia.

Sono stanco di restare appeso nel cimitero delle lavatrici.
Eppure: una possibilità non verrà da nessuna parte, se non apro le finestre.
Nel frastuono delle chiacchiere continue, come far sentire la propria voce?
Sono realmente superfluo al mondo?

mercoledì 14 luglio 2010

Un indovino mi disse, Tiziano Terzani



Tiziano Terzani

"Un indovino mi disse"

Tutti conoscono Terzani, immagino.
E ognuno si sarà fatto la sua idea. 
Butto giù solo un paio di riflessioni, anche considerato il caldo che mi opprime; anzi, la prima riflessione è proprio sul caldo. Leggete come ne parla uno che in Asia ha speso la vita, del caldo pesante che costringe dentro stanze puzzolenti con le pale dei ventilatori che girano lente a rimestare quell'aria che è oleosa, per scoprire poi che anche quel caldo ha il suo fascino, la sua importanza, e che determina, forse, quel caldo, tutto un modo di vivere e di pensare: tutto da esplorare il rapporto tra fatti culturali e clima, almeno per quel che ne so.

Riflessioni dicevo: forse è bene spendere due parole sul libro. 
La storia è semplice: un indovino predice un disastro aereo all'autore, nel 1993: un po' per gioco, un po' per precauzione scaramantica, un po' per scommessa, incomincia un anno senza aerei, che per un giornalista dovrebbe essere una limitazione decisiva. E invece, e qui è il gioco e l'interesse del libro, anche per il suo autore, diventa un anno di giornalismo magnifico, riuscendo a combinare, nonostante le difficoltà degli spostamenti via terra e mare, la presenza nei luoghi giusti al momento giusto con un modo diverso di guardarsi attorno, immergendosi nella realtà dei luoghi.
Questo è quanto, direi.
Cosa colpisce, e piace?
In primo luogo proprio quest'immersione, sempre a metà tra l'inchiesta e il diario di viaggio: e qui la riflessione la suggerisce Terzani stesso, quando parla di un mondo globalizzato (siamo, bene ricordarlo, nel 1993) in cui è possibile essere ovunque senza mai abbandonare la stessa architettura da aeroporto, centro commerciale, grande hotel, dove non ci sono odori e dove la popolazione del mondo è selezionata all'origine: peccato, ecco cosa ci ricorda questo libro, che quella popolazione selezionata, gli uomini millemiglia, siano, per quanto padroni dei destini del mondo, una ristretta minoranza. Bene, leggere questo libro è utile soprattutto a chi non viaggerà mai, per una serie di motivi, e anche a chi viaggia di centro vacanze in centro vacanze, restando ovunque prigioniero come in una Sardegna da cartolina: ovunque sempre a casa. E' utile ricordarci che troppo spesso quel che la tv non inquadra (pensateci voi se decide o meno di non inquadrare) non esiste; e ricordarci che quello che non inquadra non è solo deprimente morte per fame: sono miliardi di persone che bene o male vivono la loro vita, nelle condizioni che gli sono concesse.
Non c'è pietismo: non serve infatti.
C'è il gusto di osservare. Il gusto anche in larga parte borghese di assaggiare la vita dell'altrove, rischiando di trovare in quell'altrove povero, dove l'intrallazzo è regola, dove il dollaro apre le porte, il senso di una casa che nelle nostre città troppo spesso manca. 
Viaggiare con lentezza significa poi scoprire l'esistenza del mondo: non quello inquadrato da googlemaps, non quello che si vede nel meteo, non quello che è appeso nelle aule scolastiche: il mondo con le sue distanze, con i suoi chilometri che, a piedi, diventano improvvisamente qualcosa di spesso, di vero, di autentico com'è autentica la fatica. E nelle distanze appaiono i confini: mi ha colpito molto che esistano enormi difficoltà, anche per un giornalista occidentale, ad avere il visto "via terra": confini che non esistono per gli uomini millemiglia - il loro mondo è una scacchiera priva di umanità, in fondo - diventano drammaticamente attuali per chi si sposta sulle sue gambe, su motorini sgangherati e macchine tenute insieme col fil di ferro. E quelle stesse fontiere diventano labili quando a spostarsi è la droga, faccia nascosta della medaglia dei profitti del nostro mondo, che semina dolore per riacquistarlo, raffinato dai papaveri d'oriente.

E infine, l'ultima riflessione: nelle pagine di Terzani compare un argomento in seguito divenuto drammaticamente attuale: dopo la caduta del comunismo (sempre che possano chiamarsi comunismo gli esperimenti di economia di stato del XX secolo), larga parte del mondo si è trovata senza un'ideologia capace di conferire un senso alla propria esistenza ed al proprio agire: si sono aperti spazi di anarchia dove dilaga la legge del più forte, dove tutto si trasforma in preda per le multinazionali che invadono mondi e spazzano via tradizioni e culture millennarie con le lampade al neon e le insegne lampeggianti del libero mercato: nell'anarchia del mercato globalizzato c'è spazio solo per i pescicani armati di dollari, che tutto possono perché tutto possono comprare (ricordo di passaggio l'eccidio di Bohpal [per info clicca qui o qui]).
Bene, vecchia storia: ormai l'abbiamo sentita mille volte. Certo, fa strano sentirla spiegata così chiaramente nel 1993. Ma non finisce qui: come reagiscono le popolazioni che si sentono sradicate e invase in questo modo? In molti casi, ne parla chiaramente Terzani, rifugiandosi nell'Islam. Mi ha stupito, anche qui, trovare spiegato così chiaramente quello che è successo negli ultimi vent'anni: da una parte un mondo senza criteri se non il denaro, dall'altra un mondo che, nella misura in cui è escluso dai possibili guadagni e a cui è precluso il meraviglioso mondo del consumo, si aggrappa alle regole di una religione, vissuta come alternativa al mondo dominante.
Religione come oppio per i poveri: ironicamente proprio nei maggiori produttori di oppio.
Forse davvero la globalizzazione genera, dialetticamente, medievalizzazione: si cerca un senso alla vita nella religione, davanti al dilagare isterico del mercato, ci si raccoglie attorno alle tradizioni e infine all'irrazionale.
Irrazionale, appunto.
Non è un caso che il filo conduttore di questo libro sia poi l'investigazione del mondo degli indovini, astrologi, cartomanti, monaci e folli d'oriente.
Irrazionale, dicevo.
Ma resta sempre aperto il discorso su dove si trastulli la razionalità: in un mondo che in nome del mercato minaccia di distruggere il futuro dell'umanità o in quella parte dell'umanità che non ha smarrito i contatti con quella cultura tradizionale che conosce il ritmo della natura e, della natura, la basilare legge dell'equilibrio?