lunedì 28 giugno 2010

Equilisti #13 (finale)

13.



Il più bello dei mari
 è quello che non navigammo. 
Il più bello dei nostri figli
 non è ancora cresciuto. 
I più belli dei nostri giorni 
non li abbiamo ancora vissuti.
 E quello
 che vorrei dirti di più bello
 non te l'ho ancora detto.
(N. Hikmet)



E adesso io vedo le sedie che danzano nelle aule, e i disegni appesi alle pareti che si agitano e fanno ciao ciao con le mani disegnate, e vedo le bidelle decollare sulle scope, e i bidelli bollire in brodo le quattro ossa della morte, e i bambini fare stracci del mantello nero e inventarsi bandiere di pirati, di sogni e di anarchia, e i giovani cominciare a fare l'amore con gli occhi, a una collega si gonfia la pancia e ne esce un bambino che ruba dei pastelli colorati e nascono alberi e fiumi, trote che saltano nel sole, e tutti mangiano pane tiepido, e del mondo si spreme fuori l'olio più segreto e danziamo sul filo: ci ho speso una vita per essere qui.
Qualsiasi cosa sia accaduta, fin qui, posso riviverla e non voglio cambiare niente, neppure un punto, neppure questo punto qui.
E' ora di volare via.
Lunga è l'arte, breve la vita: sbagliando si impara, e non si smette mai di imparare.

Ho vinto cucinando in me l’attesa
invincibile, perché ho appese addosso
le tue magie,
truffo il tempo con i tocchi delle tue labbra
mentre appari bella agli occhi
di chi deve imparare
a guardarti, ad amare le tue arti,
la tua rabbia di fuoco,
il tuo lesto gioco, il tuo abbandonarti
come canoa alle lente correnti.

Ho vinto mostrando a te la mia paura tra mille
di essere amato: vinto cosa non so ancora
ma sento di gettare addosso a te l’amore come
un fascio di luce che ti fa brillare,
come un secchio d’acqua nel meriggio d’estate,
come il rumore che una bolla di sapone
magicamente custodisce dentro di sé.

C’è la tristezza dell’autunno, fuori e dentro.
Dell'autunno che esiste anche in primavera,
nel cuore dell'Aprile.
Viene voglia di aspettare la prima neve
per nascondercisi dentro,
come un pazzo pupazzo.
E tu mia nave incantata,
mio specchio, dove sono insieme
bambino e vecchio,
mio incanto scorrente come la fretta del torrente,
sei la mia arma segreta, e il resto è solo uno scudo
che sono disposto a perdere, per tornare.

Volge il sole le spalle ai monti,
illuminando altre valli,
io amo pensare al momento
in cui abbiamo scelto,
quasi come non avendo scelta, abbiamo
intrecciato i capelli e le mani come traiettorie
di lontani pianeti, tenaci nell’aggrapparci
contro il vento, contro la corrente,
contro il buon senso, contro i decreti legge, contro i contratti sindacali,
contro i bonus e malus,
contro le gomme da neve,
contro gli articoli dispari del codice civile,
contro il naso e le labbra che si sbriciolano, contro la pelle che invecchia. Io e te,
a cavallo di una vecchia secchia, rapita
dalla più umile stalla, abbiamo vinto.

E ora possiamo volare e atterrare,
e nuotare e cantare
e ora io e te possiamo onestamente amare
nei corpi e nei cuori
tutto quello che abbiamo saputo sognare.

Verrà il tempo. Viene sempre.

domenica 27 giugno 2010

Raymond Queneau, Pierrot amico mio

"Pierrot amico mio"

E' un giallo smontato, questo. Smontato com'è di moda smontare e ricostruire oggi, nell'epoca della ricerca della novità nel grembo fradicio dei generi commerciali. Mi fa venire in mente un altro giallo/noir nato per gioco, a dimostrazione di come si possa gettare in pasto alle regole previste anche la personale creatività d'autore: e penso, in effetti, a "Sputerò sulle vostre tombe" di Boris Vian. Qui c'è un incendio al lunapark, e il giallo di dipana a ricostruire eventi passati e lontani, indagandone le possibili implicazioni col presente. Ma il giallo è vuoto: è pieno di un vuoto filosofico contemplativo.
La cifra del libro, in modo di leggerlo, forse, è tutto racchiuso nei "filosofi" che popolano come comparse il lunapark: dediti a voyeurismo, si appagano (e pagano) dello scorcio delle coscie di qualche fanciulla. Spiare la realtà che provocata solleva la sottana: questo è un giallo. E viene in mente la scena del ritrovamento del cadavere della contessa in "Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana" di Gadda. Insomma, intorno alla metà del secolo trascorso il giallo inteso come indagine razionale ed operazione di disvelamento vanno in crisi. Gli eroi qui sono fannulloni, personaggi che vivono di espedienti, impiegati nelle giostre del lunapark: e la storia di dipana tra pigre passeggiate mattutine e sbronze serali, incontri e seduzioni. L'indagine è sostituita dal pettegolezzo. L'inchiesta dalla ciarla.
E l'evento a monte di tutta la vicenda, la morte di un fantomatico principe poldavo, appare inconsistente: eppure non è così che vanno le cose?
Non è molto più reale questa realtà di pettegolezzi, sbronze, fancazzismo, rancori covati negli anni, fallimenti esistenziali diffusi e distribuiti a manciate, come sale e pepe, quanto basta, rispetto al giallo classico in cui l'Holmes di turno fiutando l'aria rintraccia il grimaldello che permette di dipanare la storia? 
La crisi del giallo è la crisi della storia: crisi nucleare o ideologica, sarebbe lungo discuterne. Ma di certo, assumendo che il giallo è quel genere narrativo in cui la storia è già tutta accaduta nella prima pagina (il delitto è la conclusione ultima) e le pagine successive sono la ricostruzione di quella vicenza, possiamo dire che è la possibilità stessa di ricostruire e narrare il passato che si mostra in crisi. La verità è scomparsa: e l'eroe è una maschera triste, ma della cui tristezza persino bisogna dubitare. Scoprire cosa si nasconde dietro i disastri dell'oggi può essere semplicemente un'esperienza deludente. Quel che resta è il gioco: chi si diverte qui? Si divertono i filosofi, passivi osservatori e commentatori.
E nella seconda metà del secolo trascorso, non ci siamo trasformati tutti in questo genere di filosofi, ciarlieri e contemplativi più che mai?
E ogni nostra estetica non è diventata sempre più lo sguardo gettato di sbieco sotto le gonne delle signore?
Allora forse, per ripartire, serve il gioco. Chi indaga, qui, lo fa per soldi: si tratta solo dell'ennesimo espediente.
Soldi che servono per rimorchiare la figlia del padrone, per tenersi stretta, i capezzoli a sfiorarci la pelle, una fanciulla in fiore, per ubriacarci e dimenticare ogni virtù. 
Ai filosofi nauseati dell'esistenzialismo, ai filosofi contemplativi dell'edonismo, rinfacciamo l'edonismo della filosofia, per chiuderla in formula criptica.

domenica 13 giugno 2010

Equilibristi #11

12.



Camminiamo tutti su un filo:
la vita è il cammino, 
l’amore il filo.



- Professoressa Corsi! 
Gridano in molti quando le due ragazzine scompaiono dalla scena. 
O per meglio dire, lo gridano prima due ragazze sedute vicino alla finestra; poi il grido si allarga e diffonde. 
Escono tutti fuori. Mi avvolgono, le persone; le persone che ho visto entrare e uscire da un bar mi toccano, non si accorgono neppure che è una cosa speciale, visto che non si sono mai accorti di me. L'attenzione è rivolta verso l'alto, verso l’azzurro del cielo. Ma tutta questa gente, la cui attenzione è rapita ora come sempre, non sta guardando il cielo. Hanno gli occhi girati in su. Si stringono, uscendo in cortile. Hanno fretta ma anche paura, come animaletti veloci. 
E improvvisamente tutti stiamo guardando la stessa cosa, lassù, sospesa tra terra e cielo. 
La professoressa Corsi cammina su un filo.
La vecchia professoressa, che non riusciva più a salire le scale e arrivava in classe dall'ascensore, che si vedeva arrancare per strada, dalla stazione a scuola, ora è dritta in piedi su un cavo steso tra una finestra della scuola e il palazzo di fronte. 
"Dev'essere un cavo per gli striscioni della festa del patrono!" esclama qualcuno vicino a me. Le osservazioni si susseguono tra la gente apparentemente senza logica. Alla ricerca di una spiegazione, tutti sono ipnotizzati. 
Gli studenti non cominciano ancora a ridere: ma certo è strano vedere la vecchietta che scompariva dietro la cattedra muoversi lentamente su quel filo a metri da terra. E' strano anche per me, infatti, che so già tutto. E sorrido mentre lo scrivo, perché alla fine sono stupido come tutti gli altri. Le esperienze insegnano qualcosa, ma c'è sempre un resto che sfugge via. Il filo sembra immobile, ma oscilla, e oscilla la professoressa, come la lontana cima di un'alta quercia. 
Enrico e Federica si ritrovano vicini, con tutto questo trambusto. Leonardo è scivolato fino a Ludovica. Nonostante l'apprensione del momento si sente nel naso un'aria di felicità. 
La professoressa sta là su. 
Da quanto non guardavo il cielo? 
Tutti stanno col fiato sospeso, come dovesse precipitare da un momento all'altro; e con il fiato sospeso, tutto sembra credibile. 
La professoressa Corsi persa nell'azzurro del cielo, come un pupazzo poggiato su uno straccio. 
E mi piace tanto leggere nei suoi lenti movimenti un discorso segreto che sussurra: non so come sono finita fin qui, come non so il senso delle cose che mi sono successe nella mia lunga vita. Vista da qui, ora, mi sembra un romanzo: uno di quei bei romanzi scanditi dal suono degli orologi, ma pieni di avventure. Ho fatto molte cose, e molto spesso ho avuto la testa tra le nuvole: già quand'ero bambina mia mamma mi rimproverava perché ero sognante e lenta, perché doveva sempre tenermi per mano altrimenti camminavo senza guardare dove andavo, e mi perdevo, nei giorni di mercato, fermandomi a parlare con tutti. Per questo forse la vecchiaia mi ha preso così, alle gambe, per fermarmi. E invece eccomi qui, non è riuscita nel suo intento. Ho parlato per anni a giovani guerrieri disarmati, vedendoli cambiare ciclicamente; i giri della luna e i giri delle generazioni, e ho amato tutto, e cercato di capire cosa restasse uguale dietro i capelli ora lunghi ora corti, dietro l'ostentazione di un'eleganza a buon mercato o le braghe volutamente rotte. Ho guardato piercing, tatuaggi, creste, capelli violentati, finti moikani e nuovi pakistani. Ho visto il mondo bussare alla mia porta e ho aperto. Ho visto ciò che è diverso e ciò che è uguale. Ho ascoltato ragazzine piangenti e fuggenti, insicure e scure in viso. Ho rimproverato uomini che mi guardavano dall'alto in basso, e chinavano la testa. E' il segreto dell'amore: io sono sempre stata piccola, indifesa, eppure il mondo mai mi ha fatto male. Quando ci ha provato, io ho capito e amato anche quei dolori, che si rivelavano, infine, piccoli e delicati. Ho avuto paura di zoppicare, ma poi l'ho fatto. E non ho avuto paura quando il mio uomo è stato licenziato, e poi l'ho perduto. O l'ho trovato davvero? 
Si danza in equilibrio, sempre, tra avere e non avere, tra essere e non essere, tra le mille sfumature di colori. L'essenziale è invisibile agli occhi, ho sempre insegnato. Ed ora senza neppure accorgermene sono salita qui su, come andare alla lavagna: la stessa fatica, la stessa sensazione, lo stesso piacere. Piacere di mostrare, prima ancora di dire qualcosa. I mostri sono ovunque. Ma ora vedo l'azzurro del cielo come uno straccio ancora bagnato sopra di me. E i nasi all'insù che guardano me, come hanno fatto per anni: occhi sempre della stessa età mi hanno guardato invecchiare, e ora, come sempre, mi guardano danzare sul filo teso. 
Non abbiamo mai fatto altro, signori e signore, cari studenti miei: è tutta una questione di sfumature, e di imparare a guardare, e ora mi guardate ma non mi vedete, forse. Guardate dove finisce la città, dove inizia una foglia, dove la festa comincia a non finire, dove finisce di cominciare, dove il bruco è farfalla, dove il figlio è il padre, dove il padre figlio, dove l'uomo donna, dov'è l'amore, perché davvero non si vede bene che con il cuore, e come ciechi, come vecchie talpe cieche andiamo avanti così, tra un sole e una nevicata, tra le nuvole che arrivano e che vanno, un piede dopo l'altro, sull'asfalto e tra le lenzuola, dentro un cuore o su un cavo sospeso. 
E parlo a te, amore mio. Siamo arrivati ad un'età che pensa di avere risposte, ma abbiamo solo lasciato perdere molte domande. 
Sei stato licenziato. Io sono stata malata. Ci siamo persi, come in montagna per i sobbalzi del terreno a volte non ci si vede più, pur mantenendo la stessa distanza.
Ma io so che nella vita ho avuto un amore, e un amore non finisce mai, se è quell'amore che riempie la pancia e cucina la vita ad un lento fuoco. 
Gli amori dei marmocchi che stanno finalmente fermi, qui sotto, sono scintille nella notte; girano veloci, e sprizzano scintille. A volte esplodono nella notte, o passano correndo come lontani aeroplani, come stelle che cadono negli occhi spalancati a guardarle. Ma spesso si spengono in lacrime, lo sappiamo. E a volte si spezzano. Sono come fiammiferi difettosi, difficili da usare. Ma quando il legno, la fibra del legno si accende, allora la scintilla diventa qualcosa di diverso: si fa luce, dapprima, che rischiara le cose intorno, e con un amore così ti senti in grado di capire e scegliere e decidere, sei forte e guardi la vita scorrere su di te, con felicità; e poi dalla luce, quando chiudi gli occhi, finalmente stanco di vedere, senti provenire una cosa nuova, diversa, senti che da quella luce viene non solo conoscenza ma calore, e su quel calore senti scaldarsi la vita, e nel calore senti profumi nuovi, e senti che tutta una nuova storia comincia, una storia lenta, d'anima cremosa e tiepida, di pazienza ed attenzione, di responsabilità e lotta e gioco e sesso. 
Adesso da qui vedo tutto; vi vedo piccoli, da qui, ma più chiaramente che mai. 
E ti capisco, amore mio; e capisco che il peccato non esiste, e non esistono tesori.
Mi ricordo di quando spiegavi ai bambini perché le piante grasse hanno le spine. 
Mi ricordo la tua muta tristezza. Mai ti ho lasciato, anche se tutto è cambiato. 
Capisco che arriva un momento in cui tutti ci guardiamo le mani sporche, e non ricordiamo quando e dove è successo. E che alcune macchie non si possono lavar via, senza alterare il tessuto. Capisco che ogni osservatore è prima di tutto osservato. Capisco che ti ho amato, e ti amo. E ti amerò, perché c'è un filo che da sempre ci ha uniti, legati insieme, ed è questo su cui ora cammino calma, sul vuoto che mi separa dai nasi girati in su, sul vuoto attorno che c'è stato sempre, e su questo filo, lontani o vicini, mai ho smesso di mettere un piede dopo l'altro, fermandomi, ondeggiando al vento, sentendo il fiato sospeso di chi aveva voglia di guardare. 
Pensate che stia per cadere, voi là sotto. 
Perché è quello che succede sempre. Si cade, si cade da bambini, con le ginocchia sbucciate, si cade da adulti, quando il tempo comincia a stringere i cordoni della borsa, e si cade fino a cadere per sempre. Eppure si sta in piedi, si ride e ci si innamora. Tra le molte forze contrastanti, come una barchetta avvolta dalla tempesta, esiste comunque una rotta senza traguardi e senza premi: quello è l'equilibrio. 
Amare ogni istante che passa correndo. 
E ridere, quando possibile.
E fare l'amore come siamo stati capaci di farlo noi. 
E mentre io leggo queste parole nello sforzo dei piedi sul cavo, piedi nudi e leggeri, piedi anziani e duri, so di essere anch'io su quel filo. E come una goccia di pioggia guarda alla terra, così a volte penso al futuro. E al passato, questo leggero passato che bussa e mi indispettisce. Ti amo; e sento che vorrei prenderti in braccio e volare sopra i comignoli ormai spenti, in questo straccio intinto nell'azzurro del cielo. E mi guardo indietro, e mi volto in avanti: ma la sola cosa che posso fare è cadere. Hai ragione. E sono caduto, e però a me il sorriso non si può togliere, visto che io ho incontrato te, mia dilettissima complice. E ho imparato a guardare le cose e le persone; e le foglie in terra mi parlano della tua pelle sotto una coperta, e il fuoco, l'unico vero fuoco, siamo noi, parte di quel fuoco su cui bruciavano le streghe, siamo la rivincita delle streghe e dei maghi, di chi nonostante tutto, col tempo che è passato sulle nostre teste, non la smette di amare come ragazzini e di essere così stranamente, contemporaneamente, domestico e selvatico. 
Molti non capiranno cosa brilla dietro gli occhi, nei miei e nei tuoi. Molti non l'hanno capito. Ma quando gli occhi incontrano gli occhi le faville parlano di un cuore perso in incendi d'amore.
Che vengano, sogni passati e incubi futuri, che vengano le storie perdute e gli amori smarriti, le passioni, le scopate, che vengano le notti abbracciati al cesso, che vengano le ore vuote, gli occhi sbarrati, che vengano le poesie lette sull'autobus, che venga tutto, i denti che cadono, le ginocchia che tremano, che venga la noia, che venga l'abitudine, che venga la rabbia, che vengano le porte sbattute, che vengano le parole pesanti e i silenzi, gli sguardi obliqui che preoccupano i bambini, che vengano le cose più facili, che vengano le stelle più romantiche, che vengano i lavori persi, i "si accomodi fuori", le file alla cassa, gli spiccioli in tasca, e io sarò con te, e tu sarai con me. 
Perché come le gocce che non smettono di cadere, non possiamo fermarci. Questo non è un disegno. 
E dopo aver imparato gli articoli della costituzione, dopo aver cercato le emozioni negli angoli bui tornando a mani vuote, e aver parlato delle mezze stagioni e dei frutti maturi, e aver recitato due volte "La pioggia nel pineto", e dopo aver compilato la dichiarazione dei redditi negli anni in cui redditi c'erano, e dopo aver fatto i bilanci e soppesato le cose, e dopo tutto questo, io abbraccio te come si abbracciano gli alberi, si annusa l'erba, si impara stranamente a godere di una goccia che ti cade sulla punta del naso, e io, infinitamente, con l'infinito racchiuso nella densità di ogni istante, io ti amo. 
Noi ci amiamo. 
E quando accadono le magie, i bambini restano col naso in su a guardare, stupiti. 
Proprio come quando ogni notte la luna decolla, in un’unica notte senza fine.

Equilibristi #10

10.


Bisogna pur sopportare qualche bruco 
se si vogliono conoscere le farfalle:
 sembra che siano così belle.
(Saint-Exupéry)

Dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.
(F. De André)





I fiori sbocciano sotto il sole. 
Per alcuni ci vuole molta pazienza. Molta cura. 
E forse anche molta fortuna.
Fortuna è soccorso. 
Fortuna è essere amati. 
Ci sono semi che aspettano stagioni o secoli: che importa. L'attesa è attesa. E il momento di sbocciare è il momento di sbocciare. 
E ogni fiore è l'unico fiore. 
Ludovica. Leonardo. 
Questa sera sembra estate. E' maggio. L'anno di scuola sta finendo. 
Esiste un momento in cui i fiori cominciano a  decidere di sbocciare. Può essere subito prima di farlo, ma non è detto. Il tempo in cui le cose cominciano è un tempo a sé. 
La pioggia lava le strade: dopo quel giorno in cui si sono scontrati, si sono detti ciao, si sono detti, a mute parole, quanto sia importante essere guardati in quel modo, si sono detti ti amo e hanno avuto mille dubbi. 
Perché un fiore che decide di sbocciare non sa cosa c'è fuori. Non conosce il gusto dell'aria fresca. Il lungo bacio del sole. Il carbonio che le radici succhiano da terra. L'acqua, la pioggia leggera. E quando comincia, non sa cosa sta facendo: sarà giusta la direzione? Dov'è il rumore delle api. Il peso delle loro zampette? Avverte soltanto come una lenta onda di calore. E' di là. Per di là. Una via di fuga che è l'inizio di tutto. Una via di fuga che è una corsa verso il pericolo. E quando si comincia, ci sono i dubbi. E nei dubbi, la voglia di stringersi di più si mescola alla voglia di essere grandi. Che finisca l'oscuro scavo nella terra nera: voglio alzarmi all'aria che sbuffa, sfidare la pioggia, gridare i miei colori al cielo, al sole, seccarmi alla luce troppo viva dell'estate. 
Una sera è successo, ai margini della piazza larga e vuota. 
"Dove mi sta portando? Ho il cuore a mille e gli sto stritolando la mano. Torna in te, torna in te. Mi sta abbracciando e le sue mani mi avvicinano a lui. Che faccio? Che fare? Mi lascio andare? E' la cosa migliore. Sento che ci stiamo avvicinando sempre di più, intorno a noi non vedo più niente. Ci siamo solo io, lui, i nostri sguardi e una musica dolce che ci trasporta nel buio. Ora le nostre labbra si sfiorano; mi bacia. Mai avrei immaginato di essermi innamorata di lui. Ma ora, piano piano, si avvicina a me, posa le sue labbra sulle mie e mi stringe passando le sue mani attorno alla schiena facendomi tremare le gambe. Mi prende le mani e le mette sul suo petto. Lo stringo forte e così lui fa con me, fino a soffocarci ma in modo leggero e piacevole, quasi come fa la neve, quando si poggia sulla terra arida, soffice e delicata. 
Poi si stacca da me, mi accenna un sorriso e scompare nella penombra del vicolo senza fine."
Innamorarsi. E lui pensa: "sono agitato. Sono felice. Siamo io e lei, e attorno il mondo, ma separato."
E così cominciano a non capire più cosa succede.
E da allora ogni giorno si sono aspettati. 
Fuori scuola. 
Al solito angolo. 
Lui ha imparato a guardarla in tuta il martedì, ben pettinata il venerdì, conosce i suoi occhi stanchi del lunedì. 
Lei ha imparato che il mercoledì diventa facilmente intrattabile perché inglese non fa altro che interrogarlo. 
Lui conosce la consistenza dei suoi capelli. L'ha guardata sotto la luna. Lei si è stretta a lui sotto le stelle. 
I diari si sono riempiti di parole, pensieri, poesie, disegni, fotografie. 
Sarà questo l'amore?
Hanno scritto questo in faccia, ora: ogni mattina. 
Sono diversi, ogni mattina. Ma la felicità che ogni mattina sbatte le lenzuola dai loro occhi conversa sempre con questa domanda: quindi questo è l’amore? E Lunghe chiacchierate che mi piace ascoltare, perché anche per me sta salendo la primavera, e per quanto sbattuto, sconfitto, dimenticato, è sempre dolcissimo il rumore che fa sulle facce della gente, come dietro le maschere sale l'inquietudine o la pigrizia, le scarpe sono più spesso slacciate, le signore più belle. Anche il caffè migliora, credetemi.
E oggi qualcosa è cambiato. 
La stagione delle prime volte ha avuto inizio. E mi viene da sorridere perché vivo da un pezzo la stagione delle ultime.
Ieri. Era una giornata così calda, ieri. 
E Leonardo l'ha attesa, al solito posto. Si è infilato il primo paio di jeans che gli è capitato tra le mani. Lei è arrivata: stessi jeans. Esistono le coincidenza?
Piccolo Bacio sulle Labbra, per salutarsi. Il cuore accelera insieme al motorino; pizzica sulla pelle e fra i capelli, questa brezza quasi estiva e la velocità delle due ruote. 
Un leggero venticello fa muovere la tenda, lascia intravedere quell’unico spicchio di luna che c’è stasera. I loro corpi si muovono lentamente, insieme. I cuori che battono all’unisono, la tocca con dolcezza. Mille parole escono dal cuore. Tutte ripetono: "Nulla può rovinare questo momento!"
Pieni d’amore si guardano, non riescono a smettere di baciarsi. Il tempo è tiranno, passa troppo velocemente. Improvvisamente è tardi.  
La Riaccompagna. Strada deserta. Lui fa lo Scemo. TI AMO! Si gira e la bacia, girato completamente verso lei, FANCULO LA STRADA.
Lei si arrabbia, vorrebbe prenderlo a schiaffi, ma non sa resistergli, lo bacia. 
E’ un Amore fin troppo giovane il loro, indelebile nei cuori. Come questa serata. 
E oggi sono diversi, ma non si vede niente di diverso. 
Perché è così che funziona.
Nessuno si accorge mai di niente. 
E i noi nascono e scoppiano come bolle di sapone. Come i fiori, nessuno bada a loro. Ma qualcuno li ha attesi. 
L'amore, non ha età.
L'amore tiene su i motorini a volte, pettina le orbite dei pianeti, fa il contropelo dei campi di grano, stringe le rotte del volo saltuario delle lucciole, ingarbuglia i pensieri, annoda destini, cancella momenti come lavagne, costruisce castelli su una goccia come esplosioni di luce, riunisce sette colori nella luce per illuminare lei, e unisce lei e lui, in modi sottili, in uno sfiorarsi parallelo.
L'amore, mica detto sia per sempre. 
Quando la neve si scioglie, esce, sotto la neve, quel che c'era prima. 
Ma sempre tutto cambia.
E tutto si muove.

lunedì 7 giugno 2010

Sono fatti miei, ma mi fa scoppiare il cuore...

Per Te.
È l’ora del tramonto:
il Sole ancora caldo,
il cielo, una tavolozza di romanticismo.
Sarebbe un quadro perfetto. Sarebbe.
Manca Lui. Lui che è lontano. Troppo lontano.
Accanto a te, troppo vicina, la Paura,
silenziosamente poggiata sui nervi,
come un’equilibrista che danza
su di un sottilissimo filo di nylon,
e stringe il culo, non solo per mantenere l’equilibrio.
Resti immobile, ipnotizzata:
i colori parlano di lui,
hanno il suo stesso profumo,
il suo nome.

Vorresti parlargli delle sfumature di questo Cielo,
sussurrandogli all’orecchio quanto ami
il suo modo buffo di giocare e sperimentare,
la sua determinazione, ostinazione,
nel voler aggiustare ciò che non va,
coi propri mezzi,
o il suo strano modo di sdrammatizzare
le situazioni spiacevoli,
o della sua naturale inclinazione nel ficcarsi
sempre in qualche situazione imbarazzante.
Vorresti dirgli che il suo
Parlare e Parlare e Parlare
Non è poi così noioso:
il suono della sua voce è la melodia più dolce, per te.
E potresti ascoltarlo ore ed ore, giorni se necessario.
Raccontargli di come lo ammiri
Per ciò che riesce a fare coi suoi Marmocchi,
per come sia riuscito a conquistarli,
arrivando direttamente e profondamente ai loro cuori.
(esattamente come ha fatto con te!)
E spiegargli che seppure non sia un uomo perfetto,
sin dal primo momento eri sicura
sarebbe stato Lui il Tuo Futuro.

Ti ho Scelto, Sempre.
Da Un Anno a questa parte,
HO SCELTO TE, GIORNO DOPO GIORNO.
Senza se, senza Ma. Senza Alcun Dubbio.
Non sarai perfetto, ma
Sei l’Uomo Migliore del Mondo,
ed io la ragazzina più fortunata.
E sono qui, perché
L’AMORE È SOPRATTUTTO UNA COSA CHE SI FA.
Si fa e si ri-fa.                          
E per niente e NESSUNO al mondo
Rinuncerei mai a Capriole e Bolle di Sapone.

Voglio Amarti, Senza Riserve.
La Mia Vita, la Affido a Te.

E FANCULO A CHI DICE CHE SIAMO SDOLCINATAMENTE MELENSI:
SIGNORI, QUESTO E’ AMORE.

Equilibristi #9

9.



Dallo scaffale tira giù le lettere d' amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E' festa: la tua vita è in tavola.
(D. Walcott)

Tra nuvole e lenzuola, 
non dire una parola. 
(Negramaro)



Oggi il viso del prof è un lago immobile in un limpido e gelido pomeriggio d'inverno. 
I pensieri guizzano come pesci d'argento. L'acqua ha riflessi d'oro. Ogni lago nasconde una fata. Ma sapreste riconoscere voi il confine che separa una fata da una strega? Basta guardarlo per sentire i suoi pensieri. Pensieri di ieri, visto che sono ancora caldi, come il pane uscito da poco dal forno. Da ieri non smette di pensare così.
Sorrido così perché ho conosciuto una strega. 
I miei pensieri si fermano. Tutto è calmo. Sono nel letto, avvolto dalle mie solite lenzuola e da questa ragazza che non so da dove sia arrivata; e le mie lenzuola non sono più le stesse. Appoggia la sua testa sulla mia spalla, mi avvolge con un braccio e una gamba. Tutto è fermo. E fuori splende il sole, lo sento che sbatte sulla finestra quasi chiusa. Entrano alcuni raggi di luce, miliardi di corpuscoli sono illuminati da quell'energia e alla fine di tutto, alla fine di quel raggio, c'è lei, posata su di me. Stanca. Il suo corpo è felice. E questa sua felicità mi avvolge: per un momento mi sono sentito sul punto di soffocare, e invece respiro. Respiro meglio di prima. E i miei pensieri si fermano. Il mio cuore batte. Non esistono dubbi. L'intero mio passato sembra uno di quei giochi da turisti, con il Colosseo ripieno di neve. Lontano. E in parte sbagliato. Sbagliato in un modo ridicolo, come un souvenir. Sto bene. Sono disteso e i miei muscoli tacciono, e potrei restare disteso così per sempre. 
Abbiamo fatto le capriole. Abbiamo esploso e soffiato di nuovo bolle di sapone. Un'altalena, siamo stati. E ora mi sento come se vetri e vetri, frantumi di vetri, briciole di anni e di vite, con bordi taglienti e punte acuminate, mi fossero precipitate addosso, nell'istante del rumore del vetro che si frantuma. Ma tutto, invece, è tornato al suo posto. Ogni singolo pezzo è diventato parte di un altro. I bordi taglienti si sono saldati: non possono più fare male a nessuno. Le punte aguzze sono state ingoiate dai trucioli. Tutto torna intero, liscio come una bolla. 
E io so che tutto quello che è stato, è stato solo un viaggio cieco per arrivare qui in questo momento. 
E ora so che starò qui in questo momento. 
Non sento il bisogno di cercare parole. Non devo tenerla o allontanarla in nessun modo. 
Apro gli occhi, quando li chiudo sento lei che mi respira addosso. 
Il suo cuore è di polpa tenera. 
Nel suo corpo il sugo di ogni mio desiderio. 
Io sono un animale. Lei è un animale. Siamo uniti.
Siamo insieme la luce e la polvere sotto il comodino. I suoi occhi rotondi racchiudono mondi.
Dai miei sogni fuggono sorridendo barboni con una leva e una lanterna e lunghe cinture, che mi dicevano: dammi un punto d'appoggio e solleverò il mondo. Il punto fermo.
Le divinità sorridono e scoprono di non esistere. 
E i pensieri scorrono come un fiume guizzante di trote. 
Il sole scalda il suo corpo caldo. Siamo sudati. Siamo felici. 
Noi.

domenica 6 giugno 2010

Equilibristi #8

8.



La donna è uscita dalla costola dell'uomo, 
non dai suoi piedi perché debba essere pestata, 
né dalla testa per essere superiore, 
ma dal fianco per essere uguale; 
un po' più in basso del braccio per essere protetta
 e dal lato del cuore per essere amata.
(Talmud)



Continuamente ci si incontra. Ogni giorno le persone si incontrano. Si scontrano, anche. Quanti tamponamenti accadranno in una grande città? Quanti in ogni istante nel mondo? Si incontra una persona che si finge di non vedere, si incontra un vecchio vicino di casa, si scambiano saluti, ci si domanda "come va?" proprio per non dover ascoltare come vanno le cose, si sorride con le labbra, giocando coi muscoli del viso, e con gli occhi si guarda altrove, oltre, più in là. La fretta non è un bel modo per percorrere una strada che andrà comunque percorsa tutta: camminare o correre, non ha molta importanza. E gli scontri sono perdite di tempo, fastidi, scocciature. Oppure sono occasioni da non perdere, battute da scambiare, conquiste da imbastire, premi da vincere, sconti da ritirare. 
Ma non è questo l'importante. 
Ognuno di noi segue una sua strana orbita che non si riesce a vedere. Ma questo vale per tutti, ed essendo una costante possiamo trascurarla. Quello che è veramente importante è che queste orbite non sono perfette. O forse sono perfette così come sono, tuttavia si intersecano. E le intersezioni sono gli incontri; e gli incontri a volte sono scontri. E gli scontri non sono sempre scocciature. E non sono sempre l'attesa premiata del predatore silenzioso che scatta alla bisogna. A volte le orbite che si incontrano fanno come un piccolo nodo, invisibile. Due corpi in movimento improvvisamente sentono l'attrazione l'uno dell'altra: riprendetevi i libri di scienze delle medie e ripassate la legge della gravitazione universale. I due corpi si attraggono, in modo diverso. E questa forza d'attrazione entra in lotta con la forza che ci spinge sempre innanzi, e le rotte di complicano, girano su loro stesse, convergono. A volte i due corpi si scontrano e sprizzano via scintille tali da illuminare una vita intera. A volte è così che finiscono, le vite. A volte così cominciano. E a volte invece i due corpi fanno solo una strana deviazione, e poi scappano via come lanciati da una fionda, e ripartono in linea retta verso luoghi che non conoscono, serbano appena il ricordo dello snodo percorso. 
A volte, tutto si combina insieme. 
E i due corpi astratti iniziano a girare attorno ad un asse invisibile: lentamente, dapprima con una spirale, si accostano, e poi, invece di precipitare, incredibilmente trovano un nuovo equilibrio. 
Generalmente pensiamo che la creazione sia produrre qualcosa che prima non c'era. Una gallina produce un uovo; un pero, le pere; la api, il miele; uno scrittore, una storia; una mamma, il suo bimbo. Ma non è così semplice: a volte una creazione è solo questione di nuovi rapporti tra le cose che già esistono. Anzi, quasi sempre è così. La maggior parte delle cose esiste già, ma deve arrivare l'alba per cominciare a vedere.
Enrico, il professore, ha visto l'alba: è la ragazza che quando la guardi spalanchi gli occhi come appena uscito da una nuotata sott'acqua, e senti la gioia di riempirti i polmoni e di sentire il sole caldo in faccia. Si chiama Federica. La sua pelle sa di primavera, e i suoi occhi sono occhi da strega, pensa da quando l'ha vista. 
L'alba di solito arriva piano: le cose acquistano minuto dopo minuto forma e consistenza, fino a che il sole non appare ad illuminare tutto. Ma questa volta la luce è stata come uscire di corsa da un tunnel, spalancare la porta di un garage e trovarsi in un giardino. E vedere una casa come quelle dei disegni che si facevano da bambini, e accanto alla casa un albero, com'era in quei disegni: e la luce sono gli occhi scuri di una strega. Per questo hanno inventato poi i filtri d'amore, nella letteratura, pensa il prof. Per questi momenti qui. Parlarle è come scivolare su un prato umido, inevitabile. Amarla è come riconoscersi in un sogno. Prende carta e penna: la tua bellezza mi ha stregato, scrive.
Lei sorride: dentro qualcosa si riempie per la prima volta. Gli occhi si aprono un pochino di più: dopo tanto guardare, ora osserva. E' inciampata anche lei in una specie di magia. Non riesce a smettere di sorridere. Sono fidanzata, pensa. Ma pensa anche: da adesso non più. O non ancora. Perché la porcellana si è crepata facendo un suono dolcissimo, attorno a lei. E sente l'aria tiepida sulla pelle, per la prima volta. E con l'aria il suo sguardo che la divora. E si sente sdraiata nel giardino della casa che disegnava e che non ricorda più, sente il rumore delle formiche che cercano il cibo, desiderano ogni briciola, e gli uccelli che cantano, le nuvole che corrono. Prende quello stesso biglietto, lo gira, prende la penna dalle mani di Enrico, immobili; scrive il suo numero di telefono.
Esistono momenti, come nel fitto del temporale il bagliore del lampo che spaventa, momenti che cambiano quel che era e quel che sarà. 
Momenti preparati in altri momenti, tanto brevi che non hanno lasciato traccia. 
Eppure quando le rotte di una vita si incrociano davvero, annodandosi, e si mettono a girare tra loro, come è successo qui davanti ai miei occhi, e gli occhi lampeggiano e brillano come le ultime braci nella cenere, quando il corpo si scalda e rischia di infiammarsi, tutto sembra diventare più chiaro. 
E' servito l'inverno per preparare la primavera. 
La neve che è caduta non ha cancellato i peccati. 
I raggi del sole sempre più alto accorciano le ombre, scaldano la pelle, mostrano tutto con più evidenza: esistono momenti che sono preparati da sempre. 
La pelle. 
Lui le dirà: mi piacciono le capriole, facendo le bolle di sapone, nella notte, tra i lampioni.
Lei dirà: sai fare magie, tu. 
E intanto la spirale girerà e girerà, portandoli sempre più vicini. 
La pelle, sulla pelle. 
Tra tutti i sensi, la pelle è quello che non sa mentire; e non sbaglia mai.
E la pelle che sente questo nuovo sole, vuole restare nuda.
L'amore, come i disegni che fai da bambino, è soprattutto una cosa che si fa. 

venerdì 4 giugno 2010

"Piccola cosmogonia portatile", Raymond Queneau

Raymond Queneau, "Piccola cosmogonia portatile"

Sarò breve, infatti è il solito tramonto e al bar fa un po' fresco, ancora. E poi la brevità è la caratteristica di quest'opera: brevitas ben ambiziosa se davvero tenta di racchiudere in sei canti la storia del mondo. Badate: storia del mondo in senso scientifico, quindi ben poco c'è di antropocentrico. Dell'umanità qui si parla così: "La scimmia senza sforzo diventò / l'uomo, che un po' più tardi disgregò / l'atomo". E questo è quanto. 
Questa è proprio la prima qualità di quest'opera stuzzica il palato. Chimica e biologia incontrano la poesia, come forse solo in Queneau può accadere: per gioco, ma con massima serietà, se è vero che si è seri solo quando si gioca come i bambini. Questa recensione è imbarazzante: come sempre accade con la "Collezione di poesia" dell'Einaudi (catalogo splendido, ma gestione ultimamente da tenere d'occhio: qui si mangiano pure lo struzzo, temo. Per approfondire, ad esempio, potete vedere qualcosa QUI): infatti la traduzione di Solmi è seguita da una guida all'opera scritta nientepopodimento che da Calvino. E allora? Cosa posso aggiungere? 
Innanzitutto qualche riflessione. Quest'opera è del 1950: più di mezzo secolo fa. Cosa c'è da notare? L'esigenza di liberarsi dal "poetese", per riprendere una parola cara al recente scomparso Sanguineti. Esigenza avvertita ben poco in Italia, paese dove il letterato umanista ancora oggi snobba la cultura scientifica, dove le parole inseguono anime vagule blandule irraggiungibili, inesprimibili, inafferrabili. L'Italia è paese di cultura simbolica, da Petrarca in avanti: simbolica nel senso di fare un gran casino all'inseguimento di qualcosa che non si raggiunge, ma c'è un segreto di Pulcinella: quel che non si raggiunge semplicemente non c'è. Mi piace riassumere questo con la dedica che Leopardi appone alla sua poesia "Alla sua donna", ovvero: "a quella che non si trova". Ora possiamo pure sorridere di Leopardi, prototipo scolastico di sfigato, ma il punto è piuttosto che una donna come quella della poesia italiana semplicemente non esiste e non può esistere. E affrontare il poetese significa anche soprattutto fare il contropelo alle parole d'amore: in Italia salterebbero fuori pulci e pidocchi.
Discorso vecchio e scontato, certo: tanto vecchio e tanto scontato da sembrare dimenticato. 
Vorrei proporvi di sorseggiare insieme l'opera, senza pretese esegetiche: per la guida alla lettura c'è, come detto, Italo.
Sorseggiamo, quindi. Ecco come si parla della nascita della luna:

"Una gran pietra tenera sen va.
Oh Luna, gioventù! Svèlta dai lunedì
i campi del Pacifico ascoltavano
le tue maree. Salve, ancora salve, o Luna:
ed è lunare quest'abisso in terra
e le acque nere. E salve, salve, Luna,
comade delle storie!"

Poesia didascalica e misterica nello stesso tempo, non trovate? E ora sentite come viene spazzata via la retorica millennaria sulla luna: (l'aveva già fatto in parte Esenin...): 

"Grosso ciottolo
volavi da leggende straziato
con una faccia tale a un lampadario
ed un aspetto molto simile a
formaggio fermentato."

Viene da riflettere sull'ambizione di una poesia didascalica nel 1950: sembra preistorica, infatti, l'idea che per diffondere una cultura scientifica sia utile scriverne una poesia. Eppure è questo, questo poema: istruzioni per l'uso della storia del pianeta. E vedremo quanta ideologia si nasconda nell'operazione. E sembra incredibile ma anche nel 2010 è utile ricordare come il motore di quella che chiamiamo storia della terra, della vita sulla terra, sia l'evoluzione: approfondite qualcosa sul "Mostro di spaghetti volante" e convertitevi, ramen e via. Evoluzione che è detta, qui: ambizione.

"La terra scopa e scompiglia, tendendo
una trappola infetta quale è detta
dell'ambizione. [...]
L'animale gonfia al massimo
la propria specie, e l'individuo - questo
povero sciocco - muore doppiamente.
Tutti quanti la Terra seppellisce."

Non è proprio questo che è mancato alla cultura italiana? E che manca tutt'ora? Affrontare il nodo delicato della superfluità dell'individuo. L'uomo non è poi tanto importante: è possibile dirlo senza sentirsi accusare di nazismo? Eppure com'è possibile governare un sistema complesso mantenendo la pretesa dell'affermazione di ogni autonoma umanità personale, per di più all'interno di un sistema basato sulla compravendita di quella stessa umanità? La natura stessa non offre garanzie all'individuo, e la vita resta comunque un gioco pericoloso, tanto che nessuno ne esce vivo.
Eppure, in questa poesia scientifica (sembra scritta con un compendio di biologia, mineralogia, chimica, zoologia sotto mano, infatti) l'uomo, rimosso, è onnipresente: nelle metafore il campo semantico d'arrivo è quasi sempre umano. Umanoide.
E così la nascita dei metalli comporta che il mercurio porti dritto a Mercurio: dalla chimica alla mitologia (qualcosa del genere è tentato in Italia da Levi, col suo "Il sistema periodico": altri libro rimosso, schiacciato dalla gloria -che diventa troppo spesso un silenziatore - della sua narrativa concentrazionaria) dall'inorganico al culturale. Non ci fermiamo sull'invocazione a Mercurio: è il cuore dell'opera, certo, ma è un cuore fin troppo manifesto per essere segnalato: sulla polemica verso il poetese, per cui si sta sempre a "paragonar ragazze / a rose" e alla domanda "e allora perché non / d'elettromagnetismo?", abbiamo già detto. Il lettore attento ci arriva da solo: legge. 
Leggiamo invece la nascita della vita, l'origine della natura: 

"Invero abbisognava
molto coraggio a quella scema e pur
cosciente nuova cellula, e davvero
autoctona, allorché la propria vita
lanciò all'assalto della morte. E se 
lo fece è perché essa non sapeva 
ancora, al tempo nel quale intraprese
una fumosa costruzione d'esseri
tutti impregnati di sua moccolosa
gloria"

La vita lanciata all'assalto della morte, con stupenda incoscienza. Perché creazione e distruzione sono intrecciati:

"lo scortecciato bruco, e pur la rondine
di piccolissimi esseri volanti
distruggitrice, e perfino il leone
che rosicchia una tigre, come la 
giraffa un'erba, negare non possono
d'essere i discendenti della cellula
unica, priva di denti ed imberbe
che scoprì che c'è gusto a divorare un vivente."

Nutrirsi è cibarsi di altre vite. Sentenza crudele che marchia d'originario peccato ogni sviluppo naturale. Ma se la creazione prevede la distruzione, è dialetticamente vero anche il contrario: 

"ma come più geniale 
ingeniere  e superbo fu quel primo
sessuato che lo schiszzo proiettò
del proprio sperma sul suo doppio femmina.
Tu voluttà, amabil drizzatrice
degli umani, che dai un buco agli esseri
per ivi eiaculare, e alle montagne 
dai la valle, e dai pure il cilindro
ai pistoni, l'infanta agli elefanti,
alle tigri il Bengala, vacca ai tori,
ed ai cicali doni la cicala,
al sol la notte, ed all'uomo la donna,
gli animali che al lor debito tempo
e luogo per tuo merito assaporano
il pianeta nel qual procreanfottendo."

Secondo me l'intera cultura umana si riassume largamente in questi due estremi: l'umanità ha reso il nutrirsi una gastronomia e il riprodursi eros. Ancora una volta la natura è vista come in controluce, specchiata in faccia all'umana cultura. Ce lo dice lo stesso Queneau: "Tu [la voluttà, nota mia], che sei dei giochi madre / e delle arti e della tolleranza".

Andiamo verso la conclusione. Compare l'uomo: ovvero, appaiono le armi: "E l'orango che vuole / del proprio stronzo un proiettile fare / non lo sa che una palle avrà ragione / di lui". Ma qui la rimozione dell'umano ha il suo colpo di coda che riassume tutta la polemica col poetese: l'apparire dell'uomo conduce, in un tempo che scientificamente è trascurabile, un battito di ciglia, agli strumenti, alla tecnica, alle macchine. 

"[...]Non
si accorgono i Romani tenebrosi
né i tenebrosi Barbari che esiste
un mondo al quale la gloria aspira:
è fatto di bulloni, di carrucole,
pulegge, bielle, cilindri, ingranaggi
e di viti." 

Macchine infine: qui riprendo direttamente le parole di Calvino, mi piace lasciare questo come retrogusto.
"Come ombre di dinosauri s'affacciano all'orizzonte le macchine calcolatrici [...] che sanno fare tante operazioni che l'uomo non può fare ma che hanno bisogno dell'uomo. L'uomo ha cura di loro e loro hanno cura dell'uomo." 
Questo poema è del 1950. Sono passati sessant'anni. Le macchine le abbiamo viste nei nostri film, amiche o crudeli. In molti casi questa profezia evolutiva l'abbiamo vista confermata: l'uomo è la sua tecnica. La storia dell'uomo è la storia dei suoi strumenti. 
Ricordarlo significa snobbare una buona volta gli umanisti parolai.
Ricordarlo significa una buona volta rammentare che la tecnica chiede un'umanità adeguata. Richiede un adattamento evolutivo.
Chiudo con una domanda: l'infanzia è l'età umana in cui si compie quest'adattamento alla tecnica. Guardate i vostri figli. Guardate come si comporatano con il cellulare e il computer, e capite cosa voglio dire. La domanda è: la storia degli ultimi tre secoli non è forse la storia di un mancato adattamento dell'uomo alle sue tecniche? 
L'ideologia dell'umano non impedisce forse lo sviluppo di una civiltà della tecnica che sappia condurci fuori dal LABORintus?

P.S. Visto che quest'opera così indigesta ce la siamo bevuta, mi piace l'idea di augurare a chi legge: salute.