venerdì 30 luglio 2010

Notte di pioggia.


Notte.
Pioggia. Pioggia forte, orizzontale, ad allagare casa attraverso le finestre. Schiaffi. Testa nel ghiaccio.
Notte, dopo giorni di parole scortecciate, sbrindellate, ficcate nella gola, senza deglutire mai. Fantasmi annidati sotto il sole accecante, che morde i talloni e mette voglia di non star fermi mai, con i piedi, su questa padella che è la terra.
Mi rigiro: questa è la riflessione serale.
Conservo, da qualche parte, milioni di appunti per storie  mai scritte. Devono essere perse insieme ai libri che ho lasciato nelle scatole un trasloco dopo l'altro. E' l'instabilità che ci fa saldi in quest'epoca di sradicamenti? Ma tengo il pallottoliere sotto il naso e i conti non tornano mica: forse non sono abbastanza adulto?
Come i bambini ho le mani bucate e troppi capricci?
Un anno passato a girarmi i pollici: e voglia di sentirsi utile dentro i calzini, nascosta.
E la morte che si aggira come un randagio.
O forse una gatta guercia?
Il punto è che giorno dopo giorno, passano i mesi, e luna dopo luna, passano gli anni.
Un giorno, qualche tempo fa, mi sono detto: bene, sono cresciuto. E adesso cosa fare nei prossimi secoli da vivere?
Fumare e girarsi i pollici.
Ho voglia di costruire qualcosa.
O magari di riprendere vecchi appunti.
E smettendola di pensare, imparare a raccontare storie come si raccontano ai fanciulli.
C'era una volta un uomo che...

Come dice il poeta: cazzo, si invecchia.

Sono stanco di restare appeso nel cimitero delle lavatrici.
Eppure: una possibilità non verrà da nessuna parte, se non apro le finestre.
Nel frastuono delle chiacchiere continue, come far sentire la propria voce?
Sono realmente superfluo al mondo?

mercoledì 14 luglio 2010

Un indovino mi disse, Tiziano Terzani



Tiziano Terzani

"Un indovino mi disse"

Tutti conoscono Terzani, immagino.
E ognuno si sarà fatto la sua idea. 
Butto giù solo un paio di riflessioni, anche considerato il caldo che mi opprime; anzi, la prima riflessione è proprio sul caldo. Leggete come ne parla uno che in Asia ha speso la vita, del caldo pesante che costringe dentro stanze puzzolenti con le pale dei ventilatori che girano lente a rimestare quell'aria che è oleosa, per scoprire poi che anche quel caldo ha il suo fascino, la sua importanza, e che determina, forse, quel caldo, tutto un modo di vivere e di pensare: tutto da esplorare il rapporto tra fatti culturali e clima, almeno per quel che ne so.

Riflessioni dicevo: forse è bene spendere due parole sul libro. 
La storia è semplice: un indovino predice un disastro aereo all'autore, nel 1993: un po' per gioco, un po' per precauzione scaramantica, un po' per scommessa, incomincia un anno senza aerei, che per un giornalista dovrebbe essere una limitazione decisiva. E invece, e qui è il gioco e l'interesse del libro, anche per il suo autore, diventa un anno di giornalismo magnifico, riuscendo a combinare, nonostante le difficoltà degli spostamenti via terra e mare, la presenza nei luoghi giusti al momento giusto con un modo diverso di guardarsi attorno, immergendosi nella realtà dei luoghi.
Questo è quanto, direi.
Cosa colpisce, e piace?
In primo luogo proprio quest'immersione, sempre a metà tra l'inchiesta e il diario di viaggio: e qui la riflessione la suggerisce Terzani stesso, quando parla di un mondo globalizzato (siamo, bene ricordarlo, nel 1993) in cui è possibile essere ovunque senza mai abbandonare la stessa architettura da aeroporto, centro commerciale, grande hotel, dove non ci sono odori e dove la popolazione del mondo è selezionata all'origine: peccato, ecco cosa ci ricorda questo libro, che quella popolazione selezionata, gli uomini millemiglia, siano, per quanto padroni dei destini del mondo, una ristretta minoranza. Bene, leggere questo libro è utile soprattutto a chi non viaggerà mai, per una serie di motivi, e anche a chi viaggia di centro vacanze in centro vacanze, restando ovunque prigioniero come in una Sardegna da cartolina: ovunque sempre a casa. E' utile ricordarci che troppo spesso quel che la tv non inquadra (pensateci voi se decide o meno di non inquadrare) non esiste; e ricordarci che quello che non inquadra non è solo deprimente morte per fame: sono miliardi di persone che bene o male vivono la loro vita, nelle condizioni che gli sono concesse.
Non c'è pietismo: non serve infatti.
C'è il gusto di osservare. Il gusto anche in larga parte borghese di assaggiare la vita dell'altrove, rischiando di trovare in quell'altrove povero, dove l'intrallazzo è regola, dove il dollaro apre le porte, il senso di una casa che nelle nostre città troppo spesso manca. 
Viaggiare con lentezza significa poi scoprire l'esistenza del mondo: non quello inquadrato da googlemaps, non quello che si vede nel meteo, non quello che è appeso nelle aule scolastiche: il mondo con le sue distanze, con i suoi chilometri che, a piedi, diventano improvvisamente qualcosa di spesso, di vero, di autentico com'è autentica la fatica. E nelle distanze appaiono i confini: mi ha colpito molto che esistano enormi difficoltà, anche per un giornalista occidentale, ad avere il visto "via terra": confini che non esistono per gli uomini millemiglia - il loro mondo è una scacchiera priva di umanità, in fondo - diventano drammaticamente attuali per chi si sposta sulle sue gambe, su motorini sgangherati e macchine tenute insieme col fil di ferro. E quelle stesse fontiere diventano labili quando a spostarsi è la droga, faccia nascosta della medaglia dei profitti del nostro mondo, che semina dolore per riacquistarlo, raffinato dai papaveri d'oriente.

E infine, l'ultima riflessione: nelle pagine di Terzani compare un argomento in seguito divenuto drammaticamente attuale: dopo la caduta del comunismo (sempre che possano chiamarsi comunismo gli esperimenti di economia di stato del XX secolo), larga parte del mondo si è trovata senza un'ideologia capace di conferire un senso alla propria esistenza ed al proprio agire: si sono aperti spazi di anarchia dove dilaga la legge del più forte, dove tutto si trasforma in preda per le multinazionali che invadono mondi e spazzano via tradizioni e culture millennarie con le lampade al neon e le insegne lampeggianti del libero mercato: nell'anarchia del mercato globalizzato c'è spazio solo per i pescicani armati di dollari, che tutto possono perché tutto possono comprare (ricordo di passaggio l'eccidio di Bohpal [per info clicca qui o qui]).
Bene, vecchia storia: ormai l'abbiamo sentita mille volte. Certo, fa strano sentirla spiegata così chiaramente nel 1993. Ma non finisce qui: come reagiscono le popolazioni che si sentono sradicate e invase in questo modo? In molti casi, ne parla chiaramente Terzani, rifugiandosi nell'Islam. Mi ha stupito, anche qui, trovare spiegato così chiaramente quello che è successo negli ultimi vent'anni: da una parte un mondo senza criteri se non il denaro, dall'altra un mondo che, nella misura in cui è escluso dai possibili guadagni e a cui è precluso il meraviglioso mondo del consumo, si aggrappa alle regole di una religione, vissuta come alternativa al mondo dominante.
Religione come oppio per i poveri: ironicamente proprio nei maggiori produttori di oppio.
Forse davvero la globalizzazione genera, dialetticamente, medievalizzazione: si cerca un senso alla vita nella religione, davanti al dilagare isterico del mercato, ci si raccoglie attorno alle tradizioni e infine all'irrazionale.
Irrazionale, appunto.
Non è un caso che il filo conduttore di questo libro sia poi l'investigazione del mondo degli indovini, astrologi, cartomanti, monaci e folli d'oriente.
Irrazionale, dicevo.
Ma resta sempre aperto il discorso su dove si trastulli la razionalità: in un mondo che in nome del mercato minaccia di distruggere il futuro dell'umanità o in quella parte dell'umanità che non ha smarrito i contatti con quella cultura tradizionale che conosce il ritmo della natura e, della natura, la basilare legge dell'equilibrio?

giovedì 8 luglio 2010

Ballando nudi nel campo della mente, Kary Mullis



Ballando nudi nel campo della mente, Kary Mullis



Ho ripreso sotto mano questo libro, ora che il caldo della città mi lascia respirare.
Lo sfoglio. Ricordo di averlo letto la scorsa estate. Il libro è del 1998. Devo averlo comprato - scandalo! - al supermercato: l'edizione economica combinata al sovraconto della grande distribuzione lo facevano costare poco più di un fumetto.
Fine del preambolo.

Domanda della sera: possibile che sia pubblicato un libro del genere e non succede nulla, ancora una volta?

Personalmente mi sono precipitato a leggerlo in classe.
Motivo numero uno: un premio nobel ha avuto quattro mogli e ha saputo sfruttare i ricavati della sua scoperta per dedicarsi al surf. Già questo rende il tutto sfizioso. Per di più scrive in modo sfacciato, da anglosassone pubbista, e uno dei capisaldi della mia estetica è proprio il gusto del bar, con quel tono - vogliamo parlare di oralità? Andate a riprendervi un manuale di retorica per scoprire che uno dei tropi meno definibili è proprio l'ironia - apparentemente superficiale. La superficialità appare quando scopriamo che una delle scoperte più rivoluzionare degli ultimi anni - una pratica che ha permesso lo sviluppo dell'ingegneria genetica, se volete saperne di più potete andare a vedere qui - è venuta in mente per caso, guidando l'auto, andandosene per un fine settimana di riposo e relax, con qualche bottiglia di vino. Superficialità è parlare delle proprie esperienze con le droghe, o l'uso dell'irriverenza come modo di vita, incontri con alieni, esperimenti bizzarri.
A prima vista sembra un'opera comica: per noi italiani, abituati a barbosi barbuti (ah, la barba lunga due spanne di cui parlava Leopardi è rimasta in circolazione!) una figura del genere sembra semplicemente una presa in giro di come uno scienziato dovrebbe essere. Noi siamo abituati - ci allevano così, purtroppo -  a persone che sono consumate da un sacro fuoco, persone che sperperano la loro vita dietro la scoperta, la ricerca: e oggi forse diventa sempre più vero, considerando il trattamento che la politica riserva all'università e all'istruzione in genere. Eppure, anche spulciando qui e là, mi sembra di capire che nel mondo anglosassone le cose sono diverse: viene da dire che c'è più libertà. E' la libertà del mercato, che nel paese della mafia continua a mancare. E il mercato considera uno scienziato come un qualsiasi creativo: la regola di un creativo è che se una sua idea può fruttare milioni, allora non è poi tanto necessario tenerlo al guinzaglio come un impiegatuccio qualsiasi. Con una sola idea si ripaga di tutto, e può godere di una sua libertà: niente ipocrisie. Se per essere un premio nobel della chimica bisogna essere fuori di testa, è inutile stare a fare tanto i moralisti: quel che conta è la scoperta (e il guadagno che dietro ci si può nascondere, come direbbe Nobel, per chi se lo fosse dimenticato inventore della dinamite).
Bene, potrei concludere qui. Il libro insomma è opera di una specie di pubblicitario che, casualmente, è anche uno scienziato: il tutto sarebbe l'apologo di come le persone eccentriche spesso riescono ad essere geniali proprio per la loro eccentricità.
Solo che se fosse tutto qui, questo libro sarebbe davvero poco più di un fumetto. 
E la mia domanda non avrebbe senso.
Quello che io ho letto in questo libro (si, anche nella droga, nel tentativo di accendere una lampadina con la sola forza del pensiero, nell'incontro con un procione alieno!) è cosa dovrebbe essere la scienza.
Libertà, prima di tutto. Libertà di guardare ovunque, scavare ovunque, fare qualsiasi cosa (di limiti etici parleremo un'altra volta...).
Voglio riportare qui una pagina che mi è capitato di leggere in classe: 

"Quand'ero piccolo ogni novembre mia madre consegnava a me e ai miei fratelli una pila di cataloghi, per scegliere i regali di Natale. E fu in una di queste occasioni che mi imbattei in un Piccolo Chimico. Quelle provette piene di cose con nomi strani mi incuriosivano. Ero intenzionato a capire quali sostanze avrei potuto mescolare per provocare un'esplosione: scoprii che avrei potuto facilmente procurarmi i prodotti mancanti al negozio sotto casa. A Columbia, negli anni Cinquanta, i ragazzini erano autorizzati a giocare con robe strane. Potevamo andare dal ferramenta a comprare trenta metri di micca per la dinamite, e il commesso si sarebbe limitato a sorridere e commentare:
La prima cosa di una qualche importanza che riuscii a fabbricare con il Piccolo Chimico fu una sostanza simile alla termite. Avevo messo insieme polvere di alluminio, nitrato di ammonio, un pizzico di qualcos'altro e lo scaldai su un fornello a spirito. Quando tolsi il contenitore dal fuoco, la reazione proseguì. La miscela diventò incandescente, spaccò la provetta e partì: psssssshtttt..... FORTE! pensai, avendo solo sette anni. Non sapevo cosa fosse successo, ma decisi che la scienza era divertente."

Vorrei chiarire che il punto non è incoraggiare tutti a far saltare in aria le cose: eppure crescere significa prima di tutto sperimentare. Fare esperimenti e costruirci sopra una teoria, che poi diventa, giorno dopo giorno, la nostra vita. Forse, sia detto tra parentesi, ce ne siamo un po' troppo dimenticati, e così oggi i nostri ragazzi, che per istinto biologico non possono rinunciare agli esperimenti, rinunciano alla teoria.
Perché curiosità, libertà, un pizzico di follia, coraggio e anticonformismo, non sono nulla da soli: posso fare un buon pubblicitario, non uno scienziato.
Cosa occorre? Occorre il rigore scientifico di mettere in discussione ogni punto fermo che via via si acquisisce. 
E ricorro ancora una volta a una citazione, per concludere: 

"Quando ci entri dentro, la scienza, come tutte le altre cose che la gente fa per vivere, non è molto complicata. QUello che devi fare è risolvere un enigma. E con gli enigmi, quello che devi fare è rifletterci un po' su, considerare tutti i fatti che puoi scoprire e poi formulare un'ipotesi. Proporre una soluzione. Il passo successivo è fare quanto possibile per confutarla. Mostrare che i pezzi non si incastrano nel modo in cui avevi proposto: se ci riesci, proponi un'altra soluzione. E poi riprovi. La realtà è un puzzle ingannevole. Capita che alcuni pezzi si incastrino tra loro, anche se quello non è davvero il loro posto. Alcune soluzioni sembrano giuste per un po' di tempo, poi fanno fiasco. La soluzione che tiene conto di tutti i fatti rilevanti e non può essere confutata - tutti i pezzi vanno al loro posto senza forzarli, e quelli nuovi si adattano a quelli che già abbiamo - probabilmente è quella che stavi cercando."

P.S. Nessuno penso sia così ingenuo da non capire che forzare i pezzi non rende buoni scienziati ma permette di guadagnarsi uno stipendio con maggiore facilità.

Ma non ci permetterà mai la leggerezza necessaria per fare surf! Per stare sopra un'onda, serve la felice leggerezza delle bolle di sapone.

martedì 6 luglio 2010

Pipistrelli dei bar (...continua e segue...)

“In-battersi”

In una notte finché l’alba
In salute in gola
In malattia in un mazzo di chiavi
In un marzo in un bene che ami
In un fiore tetro in un vetro
Nero in povertà
In libertà in demenza
In una borsa piena di coriandoli
In una buca piena di semenza, in un’oscura
Tana in un ragno spiaccicato
In un’ombra inzaccherata
In un riflesso in un letto
In un fesso in un malore
Improvviso che quasi morivo
In un quasi che hai detto
In un cuore se ce l’hai dentro
In un corso in un piano
In un carso lontano
In un lontano saluto dal treno
In un bicchiere che bevo
In un dio che non credo
In un albero bruciato
In un’anima abbrustolita
In un armadio bucato in un sogno
Deluso in un bambino caduto
Che piange in lacrime morbide
In un dente fasullo in un fucile
In un bacile di sabbia e oro
In un amore in un perdono.

Pipistrelli dei bar (...continua e segue...)

“Tornando, lento”

Si assommano, sono onde
come tali inafferrabili.
Tagliato via dai canti
nei bar oltre le vetrate delle chiese
irritazioni alla pelle sensibile
inadatti ai propri sogni.
Brigando una voglia di sottana.
Stanotte - tra quante ore
devo svegliarmi, penso con orrore -
(e intanto, pensando questo, penso altro)
ho pensato che vorrei ci fosse
qualcuno a farmi i panini
che dicesse torna sano e salvo.
E questo modifica ogni flusso di eventi
mentre piscio nel latte scaduto giù nel cesso.
Abbasso un cuore di pietra un lancio di sassi
sono chiuso tra mille botole
scatole sonore e magiche lanterne.
Ma se crescono i prati tiepidi
nei tuoi occhi colmi d'odore
cos'è questo sottile dolore
questa sorta di mal di schiena
un amico vero è disposto a perderti
a perdere. Anche a pareggiare.
Porto torri di monetine in bilico
sugli orecchi. C'è il rischio
che sugli occhi caschino
sogno ancora i pomodori delle tue guance
la tua peluria di stelle di pianura.
Ogni volta che torno ho conosciuto sirene
ma nessuno ci crede ho amato senza fiato per due minuti
esistono esigenze che posso solo assecondare
ma non dovremmo sottovalutare l'intelligenza del corpo:
quando finisce che ritorno scopro
ogni volta che il posto dove tornavi
quando sei tornato non è il posto a cui tornavi:
è un luogo diverso quello che col mio corpo ogni notte copro
mentre le note appendono colori agli stendini aperti della mia fronte.
Finzione. Maschere. Dietro le maschere, polvere eri: una monetina
sugli occhi: ci sono sempre conti da fare.
Le tende alle finestre sono fatte per non guardare fuori,
le lapidi perchè nessuno torni indietro. Giusto è
dimenticare. Giusto è dilapidare ogni ricchezza.
Trasgredire è un dire come un altro: vorrei non essere mai scaltro.

Pipistrelli dei bar (...continua e segue...)

“Dopo”

Cercano i suoni di questa notte buia
mi invento i tuoi occhi di gianduia
intento nei tuoi sbocchi commerciali sull'atlantico
le rotte della gomma su ferro e del ferro su gomma
il traffico non è male come perdita di tempo
tanto per far quadrare questo bilancio di esistenza
sbrindellata: l'alienazione è lo sguardo perso di un tavolo
in cui una coppia si prepara ad esplodere lontanamente
disposta a fondersi nuovamente in un buco nero,
e le parole che uno lancia così miste a saliva
e poi quella vecchia, che si chiama Silvia, e
il gomito che sale dallo stomaco, che appetito ci vuole
per digerire questo intrico di sfruttamento, questo tremendo
odore d'appartamento chiuso, da uomo solo: questo cielo
solcato da sigari ed aereoplani, questo che ho sotto gli occhi.
Vedere scavalcando tutti i posti a sedere, cercando le note
a margine, i tatuaggi, le impressioni impazzite, le bighe
attorno agli oleandri: apparente sintassi: impossibile nominare
qualcosa. La dialettica è rappresa. Infilo le dita nel tostapane
e parlo del male di vivere, mi dò in pasto alle zanzare
e parlo di serate amare, di donne lontane, di vago
e confuso avvertire la sensibilità esacerbata dell'esistente
che grida non è niente: uccelli schiantantisi ai piloni illuminati
deviati dalle rotte, morti di botte: lupi coraggiosi che
attraversano tunnel bui, e nuotano in mari sporchi.

lunedì 5 luglio 2010

lezione #5

Lezione n° 5



Salvatore si avvia nella direzione opposta a quella indicata dal passeggino. 
Non appena ha attraversato la strada la macchina che era stata sollevata così gentilmente ricade nascondendo il cadavere della giovane mamma. Salvatore crede sia un tuono, e allunga il passo. 
Qualche incrocio più in giù si vede che il tram si è nuovamente bloccato. Ma Salvatore deve andare dall’altra parte, questa volta.
In fondo alla discesa è ora visibile una specie di presepe illuminato: la giornata si è fatta scura, e così quel presepe è più chiaro del giorno. Salvatore capisce che è lì che deve andare, e allunga ancora di più il passo. Ma a questo punto un signore gli si para davanti e gli parla. 



Signore_ Mi sembra che io sia tuo padre, figliuolo. 
S._ Non lo credo, ma è molto molto gentile da parte sua. Io sono Salvatore, amo le Dolomiti e ho voglia di dipingere il mare. Sto andando a comprare i miei surgelati. 
Signore_ Figlio mio, non puoi capire come siano successe così tante disgrazie. Mi sembra che siano anni interi nei quali, per quanto abbia finto di andare a lavorare, in realtà ho passato la giornata facendo su e giù per questa strada. Credo sia solo per questo che abbiamo la fortuna di incontrarci ancora: lo dobbiamo al fatto che io abbia smesso di prendere il tram. Mamma non mi sembra sappia nulla, anche se ho paura che abbia paura che la tradisca. 
S._ Lei è uno della brava gente, signore, ma io non capisco bene i suoi verbi. Abbia? Cos’è? Rabbia? Sabbia? 
Signore_ Credo fortemente che io sia Marcello, il padre tuo. Ricordo come tu sia partito quand’eri ancora in fasce: mamma riteneva che dovessi riposare di più per lavorare meglio e fare carriera, ma da quando sei partito tutti quelli che mi sembrava stessero sempre alla macchinetta del caffè sono diventati miei diretti superiori, fino a che, dopo una vita che mi sembra sia stata interamente spesa a lavorare, non mi hanno dichiarato come superato e prepensionabile. Da allora tutto mi sembra che sia un’unica giornata e che non la smetta di ripetersi: passeggio su e giù lungo questa via, faccio prima tutta la salita, poi tutta la discesa. Almeno a me sembra che venga prima la salita e poi la discesa, ma alla fine del pomeriggio credo che nessuno ne sia più ugualmente convinto. 
S._ Sto andando al supermarket, signore. E’ in fondo a questa strada. Ho fame, e cammino da lontano. 
M._ Figlio mio, mi sembra di ricordare che non molto tempo dopo che tu partisti mamma mi cucinò il gatto, al forno e con le patate, e da allora niente sembra che sia più come prima. Dove avrei dovuto trovare i soldi per i surgelati, se non ricorrendo al giro delle scommesse? Tutti credono che sia anni che vada su e giù per questo viale, e sembra sempre che io stia andando da qualche parte, sembra quasi che stia lavorando, e invece vuoi sapere il mio segreto?
S._ Lei è molto onesto, a dire così. 
M._ Io penso alle corse: tutti sono convinti che io sia in grado di indovinare tutti i vincenti delle corse giornaliere: ma non è vero. Riesco ad indovinarne solo tre. Ma con il passare degli anni ho imparato a giocare solo quei tre, e così guadagno più che lavorando, e sembra che mamma non sia mai stata così felice, non fosse per il fatto che è morta cucinandosi le gambe nel forno nuovo. Penso proprio che abbia sempre avuto freddo ai piedi da quando te ne sei andato. 
S._ Io non capisco tutto quello che dice. 
M._ Pare proprio che io abbia un mucchio di soldi, figlio. Ma tutto quello che avrei mai desiderato sarebbe stato incontrare di nuovo te. E’ evidente che uno può sopravvivere per anni fingendo di lavorare, scommettendo su tre corse di cavalli, sbucciando cipolle ogni sera e piangendo un figlio perduto e camminando su e giù per questo viale: non sai che camminare fa bene alla circolazione?
S._ Certamente. Il tram infatti è bloccato poco più su.
M._ Pare proprio che io abbia un bel po’ di soldi, figlio.
S._ E non ha paura degli assassini? 
M._ Come ti sembra possibile che io abbia paura degli assassini? Io so che sono morto.
S._ Sono dolente signore. Com’è successo? 
M._ Te lo mostro, figlio mio. Ma prendi questi soldi, non so cosa farmene. E ricordati che le persone qui sono tanto impegnate a fingere di lavorare per non ammettere che non c’è nessun bisogno di lavorare che non si accorgono che se smettessero di farlo scoprirebbero soltanto che non sanno cosa farsene di una vita in cui si cammina su e giù per una via, una via lunga come una vita.
S._ Può ripete, signore. Sono stanco, lei parla piano e io non ho capito.
M._ Scopa, figlio mio. E va’ dove desideri. Scopa e respira. Io sono stato arrapato solo una volta in vita mia, e sei nato tu, e sei subito sparito, perché dovevo dormire bene per poter prendere il tram al mattino e tornare la sera, e raccontare a tua madre come fosse andata in ufficio. Figlio mio, verranno momenti migliori, il tempo è una ruota che gira.

Dette queste parole quello che credeva di essere il padre di Salvatore lo prese per mano e lo accompagnò fino all’ingresso del parcheggio del supermarket. Lì c’era una panchina, e quell’uomo lì si sedette. Si addormentò di colpo: gli occhi si chiusero con lo stesso rumore dei cancelli automatici a fine corsa. 
In pochi attimi il corpo era diventato come un fantoccio di sabbia e regnatele.
Dal cielo arrivavano le prime gocce di pioggia: cadevano larghe sull’asfalto: formavano specchi in terra, senza colore.

domenica 4 luglio 2010

Parole

Le parole si rincorrono: parole che chiamano parole. 
Le parole d'amore sono scritte sull'acqua del mare che respira
tra riccioli di schiuma e fiocchi di neve. Sono le canzoni
che imbrigliano le parole, regalandoci parole
sempre nuove per una cosa che resta 
uguale: ti vesti a festa, ti sposi: e muori.


Le parole germogliano: germogliano parole.
Le parole di rabbia esplodono nel temporale
e anche se fanno male si perdono tra rade radici
e lavano il cemento che custodiamo attorno ai polmoni.
Le canzoni le prendono in prestito alla festa
che è gioia e rivoluzione: alla libertà.
Ti fai crescere i capelli, poi li tagli: e muori.


Le parole si moltiplicano e come potenze
si espongono esponenzialemente: ci disegnano,
si impossessano di noi: ci mangiano nei modelli,
negli schemi: eppure nelle foglie di lattuga, nel giro
della chiocchiola, nella luna, nella sua fuga,
esistono le regole: le parole e le regole.


Le parole ci servono: anche se sono sbagliate.
Sono solo il sorriso: i muscoli delle guance.
Gli occhi che balenano. Le parole restano.
Sono il sorriso che resta, e la festa in tasca.
Sono il grido di pericolo, e la fuga, e l'attacco.
Sono la paura del buio: il fuoco che si spegne.
Sono la fame e la sete. Sono la fatica e l'ingiustizia.
Sono la pigrizia di chi può osservare le parole
volare. E le canzoni ce le servono e ci servono
spacciandole sempre nuove per cose antiche,
quando invece le parole antiche 
ci servono proprio per le cose sempre nuove.
E poi anche se muori: tu ti innamori.

Equilibristi...

Bene, le parole che ho scritto sono state lette da chi doveva leggerle.
Ma esistono.
Discutevo ieri sera: come si fa a leggere una cosa scritta da una persona che conosci? Non è possibile poi staccare la vita dall'autore, e ci si perde nella rincorsa del piccolo fatto vero, del pretesto, del gioco di specchi. E' vero: forse dovremmo sempre leggere ignorando tutto dell'autore.
A volte mi capita di sentire un brano di musica classica - io non so nulla di musica classica - e dire: mi piace. Proprio quel mi piace che Facebook ha abusato. Mi piace perché mi fa piacere. Punto. E' una sensazione, ma anche qualcosa di attivo. Qualcosa che accresce la mia vitalità, fosse anche solo la vitalità dei miei pensieri, del mio amore, della mia malinconia.
Allora perché storicizzare sempre? Si dovrebbe, caso mai, storicizzare il testo, non me. Io non esisto, se esistono le parole: è questo il punto.
E probabilmente chi scrive ha sempre scritto per questo: scomparire, apparendo il più possibile. Come i prestigiatori che ingannano la nostra attenzione, facendocela sotto il naso.
Mi piace, questa esperienza del blog.
Scrivo poco, in realtà, molto meno di quanto avrei voluto. Ma qualcosa qui e là appare.
E poi, quel che mi piace, ed è anche, immagino, l'aspetto veramente rivoluzionario di internet, è che le parole, che sono esistite per un momento nella mia mente, non rimangono chiuse nel mio quaderno o nel mio hd. Sono qui.
Esistono proprio come esistono i soldi del nostro conto in banca quando facciamo un prelievo a NewYork. Sono evanescenti, ma sono accessibili.
Si scrive troppo, lo so. E ne sono certo colpevole anch'io.
Ma nel grande mare della rete, dove navighiamo giorno dopo giorno, intrecciando vite e destini, porno e amori, lavori ed ossessioni, nulla si crea e nulla si distrugge, veramente.
Certo, potendo trovare di tutto, diventa sempre più difficile sapere cosa cercare.
Ma questo, è problema di ognuno, qualsiasi cosa stia cercando di combinare.

Se poi qualcuno è feticista e volesse avere il libro fisicamente in mano: lo trova qui. (Secondo me va benissimo utilizzare pure la spedizione via posta ordinaria)

venerdì 2 luglio 2010

La guerra di Giovanni, Edoardo Pittalis

Proprio in questi giorni mi è capitato di sentir parlare di "tre verità": quella giuridica, quella politica, quella storica.
Mi sembra una cosa illuminante: e quanto prima mi piacerebbe parlarne a scuola.
I giudici assolvono o condannano basandosi sulle prove, ovvero sulla possibilità che un fatto trovi o meno riscontri oggettivi: su questa verità pesa poi il fatto che si occupa esclusivamente di stabilire la verità riguardo eventi che si configurano come reati.
La verità politica, decisamente meno oggettiva, riguarda appunto l'interpretazione dei fatti in senso più ampio, comprendendo anche tutte le dinamiche che possono restare al margine di un reato.
Gli storici, infine, a partire da questi due ordini di documenti -possibilmente considerando proprio il fatto che questi ordini di documenti sono viziati e o condizionati dalla loro natura - dovrebbero restituire, da una prospettiva più pacata,un'immagine della verità di quel che è stato.
Ora non ho intenzione di perdermi nel discorso secondo il quale ogni verità storica è una narrazione, pertanto impalpabile. Per quanto mi riguarda risolvo, e ho sempre risolto, la questione pensando che la verità è un fatto su cui si discute.
Ma non è questo che mi interessa: mi interessa riflettere sul fatto che la verità diventa, può diventare e forse deve diventare una verità narrata.
E allora manca, nell'elenco da cui ho cominciato, una possibile verità (o menzogna): quella giornalistica. 
Cosa sarebbero infatti i giornali se non uno strumento per trasmettere la verità?
Anche qui, sarà il fresco della notte di quest'estate romana, verrebbe la tentazione di parlare della "legge bavaglio" e di cosa siano diventati i giornali, ma mi trattengo. Ognuno immagino si sarà già fatta la sua idea.
Voglio però segnalare un libro che probabilmente non avrà avuto un'enorme diffusione (e segnalandolo qui mi rivolgo al pubblico dei miei quattro lettori... a differenza di Manzoni, io sono serio): "La guerra di Giovanni: l'Italia al fronte: 1915-1918" edito da Biblioteca dell'Immagine nel 2006.
La splendida presentazione di ENzo Biagi ci spiega immediatamente che il Giovanni del titolo lo troveremo solo nel primo e nell'ultimo capitolo.
Perfetto: un libro dove il protagonista scompare dalla prima all'ultima pagina. In effetti non è un romanzo. Ma non è neppure un libro di storia.
Di che si tratta? 
Uno va a vedere la quarta di copertina e scopre che l'autore è un giornalista: poi, a scanso di equivoci, va pure a ritrovarselo su facebook.
Tutto chiaro allora: si tratta di un'opera giornalistica. Perfetto: c'è una difficoltà però. Il giornalismo, almeno quello serio, non dovrebbe basarsi sui fatti visti con i propri occhi? Non è su questo che si basa l'attendibilità di un giornalista? 
La difficoltà qui è di scrivere da giornalista su argomenti di cent'anni fa. 
E il merito del libro è quello di risolvere brillantemente la difficoltà: come?
Trasportandorci in guerra. 
Non tanto attraverso le parole dei soliti scrittori che quella guerra l'hanno fatta (usandoli come reportage), né appigliandosi ai documenti giuridici o politici dell'epoca, né immergendosi nella storiografia. L'impressione che mi ha fatto leggere questo libro è come quella di sfogliare vecchi giornali d'epoca. Verità giornalistiche, appunto, che comprendono, l'uno accanto all'altro, eventi storici e parole dell'ultimo fante, annunci matrimoniali e liste della spesa, rincari e ideologia, frasi storiche e botte di culo, canzoni e dialetti, bollettini dal fronte e Mata Hari, l'ultima canzone alla moda e partite di calcio.
Le cifre ci sono. I fatti ci sono. La storia, insomma, c'è. 
Ma non è questo il punto. Quel che rapisce in questo libro è il costume di una nazione che proprio durante la Grande Guerra bene o male comincia a fare i conti con sé stessa, con le sue mille lingue e mille usanze: e scopriamo allora che per i profughi veneti riparati in Calabria o in Puglia il problema primario era la mancanza di farina di granturco, da cui fare la polenta, tanto per dirne una.
E la guerra acquista un'aspetto nuovo.
C'è la crudeltà e la merda, l'inettitudine e lo sbigottimento, il desiderio di vita, lo slancio ideologico, l'eroismo, c'è tutto quello che bene o male c'è sempre quando un libro parla di guerra. Ma siamo lontani da tutto quello a cui ci hanno abituato i film e la retorica. Ne siamo lontani perché siamo lontani da fronte: ci siamo, ma esattemente come se stessimo leggendo un giornale in una cittadina di provincia lontana dal fronte, eppure immersi in quello storico momento.
Può sembrare quasi un delitto, allontanarsi così: ma è soltanto un modo per vedere meglio una verità che non è né quella politica (quale verità sarà possibile in Italia, con l'imminenza del regime fastista, lo possiamo immaginare) né quella esclusivamente storica.
Tutto è già nel titolo: al fronte c'è l'Italia. Qualunque cosa possa voler dire, scoprirlo è il senso del libro.
Eppure è storia: per esserne sicuri l'istinto del giornalista che ha scritto questo libro lo ha portato, nel 2006, da un Giovanni, in Sardegna, classe 1899, che appena diciottenne quella guerra l'ha fatta veramente e ne può raccontare.
Oggi che scrivo non credo ne esistano più superstiti: il tempo ha dalla sua la migliore artigliera, sempre. E la vita si avvia passo dopo passo a diventare storia.
E la storia, e le storie, aspettano di essere narrate, per essere lette nell'oggi delle nostre personali e politiche e ulteriormente storiche contese.