lunedì 26 aprile 2010

Caos calmo, Sandro Veronesi



Romanzo di successo, l'avrete sentito nominare: vincitore del Premio Strega nel 2006. Dal romanzo è stato tratto l'ovvio film di altrettanto ovvio successo, noto per il piano sequenza che rappresenta una scena di sodomia: stuzzica gli appetiti anche più pacati, infatti, questa trasgressione soft-porno. Io aggiungo solo una mia personale postilla: Moretti nella parte del supermaschio mi ha suscitato un irresistibile scroscio di risa!)
Bene, sappiamo di cosa stiamo parlando. Romanzo? Prendiamo la parola nel senso contemporaneo del termine: montaggio di frammenti. La struttura è questa: al centro un personaggio e la sua difficile elaborazione del lutto (il caos calmo del titolo), attorno a lui una serie di personaggi che agiscono e reagiscono: ne risulta un intrecciarsi di storie basato fondamentalmente sullo scavo nel rimosso. Infatti nel libro si spulciano le mail della moglie morta, si scopre l'esistenza difficile e il rapporto ambiguo con un'improbabile cognata, si svela qualcosa dietro la maschera da bellimbusto del fratello, si cerca il bandolo di una matassa finanziaria, un importante fusione aziendale. 
Il libro è tutto qui: il protagonista, colpito dalla morte improvvisa della moglie, si ferma ogni giorno nel giardinetto davanti scuola della figlia: e in questo giardino tutto il rimosso d'un tratto viene a galla. L'amico cattolico bestemmia, condensando la sua dignità in una lettera di dimissioni.
La cognata ha una crisi di panico, sfascia un paio d'automobili parcheggiate e si spoglia in mezzo alla strada.
L'elenco potrebbe continuare, ma è superfluo. La chiave per l'interpretazione potrebbe essere quel personaggio secondario che, per una sorte di esaurimento nervoso, pronuncia oscene volgarità nelle situazioni meno opportune e improbabili: il libro è tutto un venir fuori di quello che "non sta bene". Detto questo non serve spiegare il filo tenue che unisce l'iniziale rocambolesco salvataggio in spiaggia con la scena di sodomia.
Purtroppo ho l'impressione che questo tenue filo sia bastato a sostenere ed incoraggiare la curiosità (morbosa?) e l'interesse del pubblico: di tanto poco il pubblico nostrano si accontenta, infatti, a patto che il tutto sia tenuto su dall'eleganza dello stile. 

"Sandro Veronesi racconta con stile morbido una storia di amore e dolore, mettendo sul piatto della bilancia l’importanza degli avvenimenti che, quotidianamente, sconvolgono le noster vite. Spinge il suo lettore a chiedersi se, la disperazione e la frenesia che tavolta la società moderna sembra imporre, non siano soltano dei modi assurdi dell’uomo, per evitare di pensare alle cose davvero importanti.   (da http://www.recensionelibro.it/caos-calmo-sandro-veronesi.html)
Insomma: piccante e leggibile. Che questa possa essere la chiave del successo letterario in questo nostro paese è cosa su cui è meglio se ognuno si fa la sua opinione. Così sembrano pensarla alla Bompiani:

La scrittura avvolgente di Veronesi, la sua danza ininterrotta tra intelletto e parola è la corda con cui Pietro trae a sé il secchio dal fondo del pozzo, piano piano, senza alternative, determinando le condizioni per un finale inaudito, eppure del tutto naturale, in cui si scavalcano i limiti del possibile e si approda alla più semplice delle verità: l'accettazione della natura umana nella sua banale, eroica confusione di forza e debolezza.
Con Caos calmo Sandro Veronesi ci offre un'opera importante, la cui maturità espressiva sfiora le profondità dell'apologo, centrando il nocciolo duro di un'umanità che patisce fino allo spasimo, e che dinanzi alla quiete si meraviglia. (dalla recensione sul sito bompiani: http://libri.bompiani.rcslibri.it/sclibro.php?isbn=45234894)

Ma questa stessa libertà mi permette di affermare che il libro non sta in piedi.
La lettura scorre ma sempre di più manca l'aria: forse per questo il romanzo si apre con uno scampato annegamento. Il punto è che qui il ritorno del rimosso appare sempre più puerile e patetico, adolescenziale, perso tra un po' d'oppio e qualche erotico prurito. Il tutto poi è strettamente chiuso tra le pareti di cristallo di quello che si definisce "bel mondo": bellle donne, capitani d'industria, giovani rampanti: un mondo asfittico, per quanto possa apparire internazionale e globalizzato.

Le vite di numerosi personaggi si intrecciano davanti alla scuola della figlia di Carlo, dove quest'ultimo si è rifugiato ad attendere che il caos, creatosi non solo per la fusione in corso, evolva in un nuovo stato. Ovviamente le storie e i personaggi sono frutto della fantasia più pura, ma i sentimenti, le sensazioni sono quelli che si respirano in tutte le aziende che affrontano un processo molto delicato come una fusione. (M. Bancora su http://www.imli.com/imlog/archivi/000980.html)
Si tratta di un romanzo contemporaneo, per di più psicanalitico: psicanalisi della classe agiata, è questo il tema. Argomento da telenovela, della serie "Anche i ricchi piangono".
Bene, tutto potrebbe finire qui. E non a caso il libro (e il film) così giustificano il loro successo.

Non conosciamo le intenzioni dell'autore: forse è un vecchio pregiudizio strutturalista o forse solo un modo per tentare di far tornare il libro un oggetto da interpretare e non un prodotto da consumare (l'autore è diventato un brand).
Allora sospendiamo la stroncatura: se la psicanalisi è un'ermeneutica del sospetto forse è possibile tentare di fare un contropelo a questo libro. Forse qui è tutto vuoto perché così dev'essere; forse lo scavo nevrotico non conduce a nulla perché nulla c'è davvero. Se il rimosso che ritorna è risibile è perché i vincoli sociali del "bel mondo" non hanno nessun senso.
Il libro potrebbe essere una beffa: e lo spettatore, che cercava una qualche catarsi nella tragedia degli eroi, si trova davanti al vuoto di uno specchio.
Il libro cerca di mettere a nudo dei personaggi per dimostrare che siano nudi da sempre.
Non è molto, in effetti, per un Premio Strega.
Che lo faccia per smerciare eleganti frustrazioni per compensare le ben più volgari normalità della massa, che si compiaccia di prendere sul serio la sottile analisi psicologica o che vada letto mantenendo un dignitoso riserbo ironico, lo decida chi vorrà leggerlo.
Questa è la libertà del libero mercato, e that's all, folks...

Dispiace soltanto che un moderno romanzo psicologico trascuri la lezione che un secolo fa diede Svevo: la classe borghese non ha psicanalisi che non cada nel ridicolo, per il semplice motivo che non ha realmente anima.


sabato 24 aprile 2010

Equilibristi #3










Verso la fine della vita avviene come verso la fine di un ballo mascherato, quando tutti si tolgono la maschera. Allora si vede chi erano veramente coloro coi quali si è venuti in contatto durante la vita. 
(A. Schopenauer)






In un bar si fanno sempre incontri strani e inaspettati e per questo quasi tutti quelli che entrano cambiano faccia, entrando; a meno che non siano frequentatori abituali, ma anche in quel caso ostentano fin troppo quest'allegria, come fosse un merito a fatica guadagnato e di cui vanno orgogliosi. A me nessuno mi vede entrare e nessuno uscire, ma questo forse non significa che non indossi maschere anch'io, qui dentro. Come fuori, probabilmente. Come voi, come tutti.
Gli unici che sanno entrare nel bar senza fingere sono gli studenti: allegri, sfrontati, stronzi e sfacciati. Entrano come si entra nella vita, spalancando la porta senza timori, come chi entra per litigare disposto a lasciarsi ferire.  
Ne sono entrati due ridendo allegri, di prima mattina. Uno diceva all'altro: "ma tu sei pronto in storia?" Ma l'altro lo spiazzava: "Dici che Lavinia ci sa fare?" E rideva, e negli occhi lampeggiava, come un riflesso di fanali, la malizia che lo possedeva. 
Portano negli occhi molti desideri orizzontali. Tutti. E se indossano maschere, sono gli unici che non le cambiano entrando da questa porta: chi era timido qui fuori, entra timidamente, non saluta nessuno, aspetta alla cassa stringendosi alle caramelle che aspetta di pagare. Chi fuori godeva di un motorino sgangherato, entra mostrando la sua maschera sgangherata. E quelli normali, aprono la porta ed entrano fieri della loro normalità.  Qualcuno di quelli più piccoli ha addosso una sua timidezza di cucciolo.
Uno ne è entrato adesso: ma non è poi così piccolo. Fuori i suoi amici fanno rumore con le marmitte aperte dei motorini.
E’ Leonardo. Entra a comprare le caramelle, come un bambino qualunque. Anche se è alto. Anche se comincia già a bere birra e rifiutare sigarette. Anche se muore dalla voglia di innamorarsi, ma non sa come si fa. 
Capire gli adulti è più complicato, forse perché sono troppo semplici.
O forse anche questo mio raccontare è tutto un errore, perché proietto alle mie spalle pezzi di film che ho visto e conosciuto, e credo di capire tutto. Il vecchio padre che racconta tutte le storie dev'essere vecchissimo, quasi più vecchio del mondo. Un vecchio che sorseggiava brodo primordiale, nelle sue serate allegre. Oppure la magia si nasconde davvero nelle parole che scegliamo di adoperare. Forse è tutta lì.
Questo giovane che sta cominciando ad uscire si descrive soprattutto per quello che non è: non è alto né grosso, non ha capelli da killer, non porta i vestiti di un reduce, non parla a voce troppo alta, non ha studiato, non è che gliene importi poi tanto, non ha mai baciato una ragazza, non si è mai innamorato, non saprebbe riconoscere l'amore neppure se  lo trovasse seduto lì accanto, in autobus, non ha mai fatto un viaggio all'estero, non ha mai capito cosa significa "amor ch'a null'ho amato", non ha mai preso meno di cinque né più di sette, non ha mai capito i suoi genitori, presumibilmente ricambiato, non ha mai fatto a pugni e non ha mai finito "Se questo è un uomo", libro amorevolmente consigliato dalla sua professoressa dello scorso anno. Non è come gli altri. Non è migliore degli altri: non ha mai aiutato una vecchietta ad attraversare la strada, non ha mai veramente ascoltato un professore, non ha evitato che in piazzetta qualcuno prendesse troppo in giro qualcun altro, quando altri dissero “negra” lui guardava altrove; non ha mai pensato davvero al rapporto che c'è tra colpa ed omissione, in effetti.
Non è peggiore di altri: non ha mai fumato uno spinello, non ha mai rubato nulla con un valore superiore al paio d'euro, non ha mai trafficato in foto porno di compagne di classe, non ha mai ascoltato davvero quello che dicono in tv, non ha mai tradito un amico. 
Ora, nella magica età delle prime volte, molte di queste cose stanno per capitargli, proprio come sta per aprire la porta del bar e uscirsene fuori, incontro agli amici, per scappare via sulle selle rombanti, verso scuola o chissà dove, schivando autobus e indiani. 
Conoscete quella vecchia storiella? 
Degli dei non si può propriamente raccontare nulla. La loro vita è beata e immobile, per questo spiano l'amore sulla terra. 
Ma neppure i demoni hanno voce perché sono ormai sprofondati dietro la loro maschera di dispetto e ciarla, per questo spiano l'amore sulla terra. 
Una storia che inizia è soprattutto una storia in cui ci sia l'amore della terra.
Le storie infelici hanno sempre la loro particolare infelicità. Quelle felici si somigliano sempre nel loro enigma. 

Pipistrelli dei bar #1



“Violenza violata”

sparate ai cani
i gatti appesi graffiano ancora
riflessi di luna globalizzata
impressa stampata nei 
frantumi di specchio della propria riproducibilità.
Le teste spaccate le ossa rotte le percosse
imparano a parlare a testa alta, no?
Scoprire che siete vivi imparando dal giornale
che potreste morire anche se i binari si incrociano: 
le parallele sono sole fin’oltre l’infinito.
Si affollano sopra gli stormi,
gli storni ingoiati dai boeing.

"Dica dedica"

Dica dedica:

Hanno questi occhi i cerbiatti
Quando i cacciatori se ne vanno;
Questi vostri occhi e più in là, piatti
Volano piccoli uccelli: e si dice buon anno.
E una porta si chiude e si apre
Un arcobaleno e si resta
Con i piedi nel fango e si vuole
Che il mondo dopotutto si vesta a festa.

                     Hanno questi occhi i cerbiatti
                     Quando i cacciatori se ne vanno,
                     noi ci si dice buon anno
                     mentre i sassi rimbalzano piatti.
                     Non abbiamo mai sogni disfatti
                     In questo primo giorno dell’anno
                     Ma le nostre parole, che vanno
                     Dove i saggi vanno, o i matti.
                     Per questo poi a volte si resta
                     Per questo a volte si va
                     Si aspetta un passaggio o una festa
                     Si impara disciplina e libertà.

Per questo abbiamo spazio nella testa
Per riempirla della nostra felicità.

mercoledì 21 aprile 2010

Jean Giono "L'uomo che piantava alberi"






J. Giono, "L'uomo che piantava gli alberi" 

Breve apologo - si legge in meno di un'oretta, tutto d'un fiato, anzi, leggetelo così, ad alta voce, ai vostri figli, agli studenti, ad ogni ragazzino che vi capiti a tiro - ma capace di farvi spalancare gli occhi.
Qualche informazione tecnica: l'apologo si basa su due momenti distanti tra loro molti anni: il primo ci presenta un personaggio e il suo mistero, il secondo lo risolve definitivamente. Una tecnica semplicissima per dare al racconto il tono di un'autentica epica moderna, un po' come se l'intera Odissea venisse riassunta nell'ultimo saluto di Ulisse a Penelope e, di colpo, nel suo finale disvelamento. 

Provate a prendere due fotografia (la modernità è infatti intrinsecamente fotografica) della stessa persona in due momenti diversi e distanti: quello che collega le tue foto è una vita, insomma. Raccontare questi intervalli è stata l'aspirazione del romanzo dell'800, nel '900 ci si è compiaciuti dei collage e dei frammenti, e il nostro nuovo millennio rischia di essere quello dei montaggi di "Amici" o "Il grande fratello": spezzoni scelti e abilmente montati a simulare l'unità di un'esperienza, a mimare il senso di un vissuto. (I quindici minuti di celebrità si convertono nelle vite brevi di uomini non illustri, con conseguenze tutte ancora da decifrare).
Giono invece gioca diversamente: nei due incontri è il narratore che cambia, vivendo la storia, la guerra mondiale, mentre il vero protagonista, l'uomo che piantava gli alberi, resta tale e quale. Certo, era vecchio al primo incontro, sarà più vecchio al secondo: gli anni sono passati, eppure è sostanzialmente lo stesso, come vivesse in quel tempo ciclico, in quella antropologica cultura legata alla natura della cui scomparsa tanto si dolse Pasolini.
Tutto lascia pensare che durante l'intervallo il vecchio abbia semplicemente ripetuto gli stessi gesti, gesti misteriosi soltanto agli occhi di chi non sa guardare dalla giusta distanza ed è schiavo di una logica di causa-effetto accelerata ed ossessiva. Non guardate ai personaggi: sono semplici, come conviene ad una favola, e qui il miracolo è proprio quello di trovare il respiro di un'epica moderna capace di fare a meno degli uomini, lo sguardo proprio di un mondo in cui l'uomo ha smesso di avere poi troppa importanza: epoca industriale di grandi numeri, che si tratti di merce venduta o di uomini massacrati.
Quest'apologo non cerca l'individuo: lo sguardo trova modificato ben di più. 
Quello che cambia, ed il cambiamento è alla base di ogni narrazione, è il paesaggio: dove prima era una specie di deserto compare come per magia una foresta. E la magia di questa fiaba non è affare da apprendisti stregoni: l'autore ce ne rende partecipi molto semplicemente: un uomo passa degli anni a piantare alberi. Tutto qui.
Eppure è il gesto quotidiano di quest'uomo dimenticato dalla storia che ricrea un paesaggio e con esso un territorio, e su questo territorio, possiamo sperarlo, altri uomini, uomini nuovi, potranno seminare una nuova cultura.
Non serve alcun rimpianto: e piantiamola con la retorica dell'eroismo.
"Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole"
Forse allora è sempre il momento giusto per smettere di analizzare stessi e il mondo e cominciare a fare qualcosa per cambiarlo: qualunque cosa sia, un altro mondo è possibile.

Agosto in città (breve delirio del precario)


“Agosto in città: riconosco la libertà.”


Amami devo andare
Via, via, lontano: pesco da un mazzo di carte
Le avventure da inventare. Sparse carte colorate
I sassi saltano qui e là
Da un piatto all’altro della bilancia.
Amo 
gli amori
appesi alla cieca
lungo gli alberi
del paradiso
per tentare
dall’alto
di tirarmi giù
e farmi
blu.
Mai più.
Cos’è questa paura di morire
Sarai tu mio fresco
Non ascolto come mi sciolgo
Mi sto dileguando
Sublimandomi in vapore.
Scappo e fuggo e scappo
Più veloce della luce
Più rapido dei balzi 
Che la luce arancione fa nel folto della foresta
Da mostri e chimere
Per non sciogliermi ogni volta che
Tutti gli alieni qui hanno gli occhi
Dolci ma è la solitudine 
Semplicemente. Le persone 
Si confondono
Quando sono fuse
Come acciaio.
Mi ritrovo a pensare alle tue cosce
E al resto e a sospettare che
Se tu improvvisamente le usassi su di me
Potresti lasciarmi spiaccicato 
Come un moscerino sul parabrezza
Di una macchina che corre troppo veloce.
Tutto è come un ghiacciaio
Siamo reperti di tempi esauriti
Rifugi di pile esaurite
Le notti hanno barbe da campagna: inventiamo per favore
Nuovi metodi per farci del male.
Le notti hanno strade lunghe come fiumi:
tutto un guado da fare piano, insieme.
Per imparare a farlo senza ipocrisia:
Con tutta la cognizione del dolore
E le lacrime delle cose
Colate nel sangue
Da astronauti di asteroidi.
Aste le aste che aste da 
Da alzare tra i paletti
Le aste un passo dopo l’altro
Graduale
Disgregazione delle cose
Disintegrazione dell’esistenza
In atomi di colore.
Hai portato la corda?
Io ho il sapone, Godot le birre.
Rubinetti aperti come vene come
Le tue gambe che fanno la circonferenza
Del pianeta. Sperduto come bambini
Disorientato come ogni persona di buon senso
Fanculo il metro
E i centigradi.
Non bastano i denti
Bastarda mescolanza di
Ibridi dolori
Non le zanne che venga allora
È l’amore una madonna nera
Il fuoco per la mia per via delle mie vene
Anima di cartapesta come la carta in fiamme
Fuori dal mio pene
Da questa insistente 
Solitudine che bussa alle Tendine.
Assaggiami:
Come la prima eroina.
Come la prima rosa
La prima spina.
E in un dolore di roccia
Chiudi la mia anima
Scolpendo insegne
Per tutte quelle
Persone distratte 
Che appendono
All’occorrenza 
L’anima con la giacca.
Io sogno 
scimmie elettriche 
che si attaccano alle mie spine 
come insetti alle rose: mi riposo 
su un’ortensia qualunque 
quando e se 
capita.

E’ che tu non ci sei
Quando le mie lacrime 
Si fanno pesanti
E cadono così nello spinto vuoto
Del pavimento senza
Poterti irrigare.
Strappami scudo e corazza
Per arrivare a graffiarmi
Ma hai solo tagliato via un seno
Per arrivare un giorno
Ad uccidermi con una lunga freccia
Senza alcun ritorno.
Da quando sono chiuso qui
Con quest’odore di merendine?
Sei frutta troppo matura
Per questo ho fretta di sprofondare
Nelle tue fibre.
Non ho avuto, sia chiaro, 
le giuste cattive compagnie
per distruggermi amandoti.
Ma ho fatto quanto potevo per andarci vicino
E mi sono infine Acceso al fuoco limpido dei tuoi fulmini
Le tende gonfiate dal vento dei tuoi
Occhi e i tuoi passi calmo e lento D’amore maturo come le soste
Ai margini (e le note, di notte)
Di una strada per pisciare.
Appeso alle tue calze arreso
Che le mie parole luccichino 
Quindi come invano versato sangue che langue sulla pingue
Foca assassina prigioniera in cantina, carina, ma dove
Abbiamo perso il cartello con gli orari?

Un pezzo viene già giù.
Cade in uno strapiombo
Blu, legato a un filo
Segna la perpendicolare 
Sull’orizzonte, tutto il mio morale
È un problema di geometria
Ma quali: dimensioni
Perplessità.
Riflessioni e lacune.
Sono state intrecciate
Per questa perdita e l’incontro
Non c’è niente di peggio che essere stati
Felici
Una volta e poi non esserlo più
Per questo amo tutte le foglie
E le altrui voglie che mi sopravvivono.


Amo 
l’amore 
che amai
e amerò
l’amore che 
mai amai. Ma
amare l’amore
sul mare è amare
amare amare ore
lunghe come tutto 
l’inverno degli orsi: giù
dalle montagne: è mattino.
La freccia di fretta non indica nulla affatto
Beffato dai rivoli d’affetto aspetto
Che tu mi fiorisca addosso: possiamo
Ragionevolmente postulare che arrivi
Un giorno anche se forse sarà notte
Un omino magro e curvo a raddrizzare
Quel che non è andato ancora il grande 
Riparatore pagherà tutto quello che
Noi intanto abbiamo così desiderato con
Struggimento da scioglierci 
Nelle gocce di ghiaccio dei sonni
Senza sogni perché senza te
Mia vivida fontana: ma intanto Passi tardi
Com’è che si ammazza il tempo? E trovi chiuso il portone
Sono tappate le bottiglie.
Cosa importa essere stati felici?
La porta è cinica
E resta chiusa com’è giusto
Che sia.
E lo sai: non si rimedia mai
Davvero ad una buona azione.
Neppure con un diverso respiro.
Questo corpo è la cattedrale 
Di nuovi riti: vernice nuova
Sulle pulsanti polpe dei deliri
E frutta. Come aprire gli occhi
Quanto mi tocchi dopo una sbornia
Dopo il sesso e i guai
Il giorno dopo l’ultima 
Catastrofe.   I delitti
Per appuntare le mie
Appassite idee
Alla tua persona
Alla silouette della tua 
Scena
Sono ipotesi inconcluse
Tutte le volte che salta
Bionda come esplosioni
Nei campi di grano
La puntina
Per ferirmi e aprirti 
Minuscole
Finestre
Con tendine di debole sangue
Merlettato negli oggetti
Negli spasimi della tua vita
Tutte le volte che si cambia
Discorso come giocare con
Una candela un marinaio muore
Dimenticando la sua nave
Affogando in questa neve.

Aqualung (ovvero: omaggi incrociati)

“Aqualung”

Maria, Maria, stringo in pugno il tuo nome
come il poeta stringe i versi sudati in tutta la notte
e mi sporchi le linee della mano come
tutto il sangue speso in quattro botte farabutte.

ogni mattina che ti vedo mi faccio le mie domande
com'è che hai quegli occhi così, proprio tu,
e perchè capisci benissimo che sto andando a recitare
ogni mattina, parlando di insegnare
e chi è che truffa di più se tu o me, me lo chiedo.

So che la tua pelle odora da lontano d'amore, e che vendi
tutto quanto perchè quando uno di noi piange sei tu che stendi
ad asciugare i suoi sogni, ramazzi via gli orgogli
ogni volta che qualcuno pensa che quel suo io piccino
abbia sul serio bisogno di una cura speciale
ma tu sfuggi con gli occhi di pantera, alle pantere della notte
alla polizia, alle botte di ragazzi che non impareranno ad amarti,
amari come sono,
ma diversamente da me tu sai lasciarli sbagliare.

Qualcuno grida alla truffa, buttando sul piatto
la morale offesa, la mercificazione del tuo corpo che
se è vero che lo vedo camminare ogni mattina,
come quella crepa sul parabrezza della mia macchina che
ancora non mi decido a riparare, il tuo corpo
che rapisce allegri giardinieri, socialisti impegnati, giornalisti, 
architetti tutti tesi ad architettare quella
loro sera di festa, appesi alla loro stella cometa,
così tu vendi loro, al mattino lo capisco, nella mia
assoluta mancanza di voglia di scoprirmi posizionato
alle consuete giuste coordinate di questo pianeta: sei
pericolosa come la morte, per questo scivolano a te
come le formiche.

Ma anche le formiche sono tue amiche, se è vero
che dalle briciole del pane può nascere altro,
in modo insospettabile, e la fame ha ben poche domande:
la sera ascolti una canzone per te
c'è un eroe anche stanotte che si perde giocando
con la sirena: girano sempre più strette le sirene
convinte di arrestare questa minima bomba
sieropositiva, dicono. La canzone è per i tuoi piedi,
per quel tuo modo di camminare, il segreto delle tue gambe,
il sortilegio della tua verginità la gioventù
che vola dipinta nel blu dipinto di blu.

Chi canta ha le unghie sporche ed ha scavato la terra
come le formiche ha dimenticato di essere qualcuno
e trema guardando le persone che corrono lontano
e si piega per ogni violenza che vola di mano in mano
non ha forza per contrattare, e tu non lo fai pagare
in questo gioco di vivere per morire,
che te ne importa di ogni filosofia se canta una poesia
per te
se le formiche lavorano sodo e sono le migliori amiche
in quei loro silenzi,
cosa importa se la voce stessa odora di morte
se il collo assume sempre più la forma di uno scalino
se i capelli sono un pelo arruffato scappato lontano
da ogni lama dalle tue inutili dita di bambina.

Ha il respiro corto il tuo angelo, stanotte:
è uno che troppo a lungo ha amato sirene,
ha finito da tempo le cure, le pasticche,
neppure il mare l'ha voluto tenere stretto, nel grembo,
ha venduto le ali per un litro di vino,
canta ancora, di temporali lontani, e lo sai che lo ami
con quel tuo amore che resta arrotolato molto prima delle parole
sei nelle sue favole e tu sei in lui la tentazione
mentre ti parla di quello che sarà e non sai capire
quella sua voce che si assottiglia sempre di più.

Tutti ti conoscono, tra questi vicoli.
So dei miei studenti eccitati per quel tuo collo malato
e dei loro padri e dei padri dei padri da quando esistono
i lampioni morire e pagare per quel tuo gusto di lamponi
quei tuoi occhi perfetti che non si sono mai guardati allo specchio
per lo zucchero filato che nascondi e offri,
per il contrabbando di vita, travestita da morte,
e la piccola morte che spandi attorno a te, a tariffa
variabile. E tutti chiedono di te, per amare e per mangiare,
in un modo e nell'altro.

Aqualung ha smesso anche di mangiare, sei un abito smesso
e le stagioni accelerate al massimo, sei l'energia
per volare sugli anelli di Saturno, per lui,
che smettendo tutte le sue facce nei naufragi compiuti
ha conservato l'allegria di cantare
anche quando non arrivano le parole, quando la canzone
è il battito del cuore guasto, il respiro che inciampa
nelle mille trappole che incontra.

Gli amici cariati fanno l'altalena sulle tue ciglia
sei la passante che non passa, e lasci che tutti
abbiano la loro possibilità di sbagliare.

Sono stati impiccati tutti i falegnami da secoli: ricordi?
Vieni dal bagnasciuga, tu. Ti guardo,
scopro in ritardo il peso delle finzioni
e non importa più domandarsi come funzioni: nel letargo
dei nomi collettivi le tue ciglia inventano
fuochi e segnali, rispettabili malattie morali, e mortali
desideri, nostalgie dei sogni sognati tanto tempo fa,
la restituzione infinita: mentre la festa si annuncia.

E' una parata di desideri, mentre ti addormenti.
Il buon vecchio non ha nulla da insegnarti: dice che
partorirai un figlio.
Non me ne meraviglio. Tutte le cose andate finiscono qui
e tutti i sollievi ad ogni cuore smarrito che hai inventato
con le tue sottili mani, i colpi delle anche,
smantellano le banche delle fate, che ridono nell'aria,
mentre chi cantava per te non canta già più
mentre tutto sta cadendo giù
mentre le vecchine cadono per strada senza alzarsi più
mentre le parole si stiracchiano per un nuovo sporco lavoro
ecco il frutto del seno tuo Gesù.

Lo svolgimento delle storie gioca con le memorie
e non sono altro che correzioni, e inciampo anch'io
tra le rotture di coglioni, e cado, e dio
aspetta una cameriera per imparare a giocare
e tu, col tuo gesù, povero bimbo pazzo,
povera tigre a molla, mostro a razzo,
dimentichi di parlare: impazzire bisogna.
Questa notte prima di cominciare
a dimenticarti proverò a sognarti: imparare
ad amare.
Dormirai tra le umide lacrime dei cimiteri
cullata dalle mani dei carpentieri,
la fame non ha fede nè colore, non ha progetti
e non ha storie.

Maria, Maria, stringo in pugno il tuo nome
come il poeta stringe i versi sudati in tutta la notte
e mi sporchi le linee della mano come
tutto il sangue speso in quattro botte farabutte.

Ogni disegno ritaglia dall'infinito
un'eventualità di felicità: dove guardano i tuoi occhi
oltre gli uomini che tocchi, o proprio dentro di loro?
Giocando con il tempo, io entro, scontroso,
ora lavoro, mi riposo, mi risposo,
vorrei imparare a dimenticare.
Sei ancora lì, gelida puttana
a scaldare i vicoli dei soli di marzo:
ogni volta che mi alzo, penso che la tua esistenza
mi getta in faccia l'esigenza di nuove perversioni
nuove violenze e nuove parole.

Vorrei imparare a cantare.
I bambini che dormano, mi dico: l'alba verrà,
mescolata alle stelle, e questo lavorare
avrà di nuovo l'uomo. Esiste l'uomo che ripara le cose.
Esiste chi vive delle tue calze rotte.
E mi sporchi le linee della mano come
tutto il sangue speso in quattro botte farabutte.

Prefazione alle poesie



Introduzione


Luglio 2009: Enrico Quattrin è ancora curvo a scrivere. Rapisce squarci di vita. Attimi d’amore. Desideri di bellezza. Ansia d’umori e sudori. Sorride e scrive. Scrive e divaga. Scrive in amore e canta una solitudine alta e preziosa. Colloqui composti di tenerezza e ardore che chiamano il sogno di un intimo colloquio tra un uomo e una donna. Sappiamo – e comunque presto si saprà - che Enrico nella sua scrittura impegna la traduzione delle pulsioni d’amore e rappresenta i sentimenti semplici di una relazione fatta di fisicità, idealizzandone i complessi risvolti relazionali e risolvendo le implicazioni strutturali della coppia esclusivamente in poesia.
Le sue poesie sono versioni appassionate di una visione idealmente autonoma e solitaria dell’eros: unico dono, che può fare alle migliaia di donne che affollano il suo universo onirico. Tutte essenziali e desiderabili ma nessuna indispensabile. I suoi schizzi e i suoi versi si muovono nell’intramontabile spleen romantico e la pasta poetica di cui sono fatti si compone di immediatezza e delle folgorazioni di un folle.
dormire tra le tue dita / come bestia assopita: l’orizzonte…” questi versi, ad esempio, esprimono un elemento determinante della scrittura di Enrico e di alcuni tratti universali di un suo neo-romanticismo, quello in cui è proprio la complessa strutturazione della lirica a rendere nel modo più avvincente e convincente l’immediatezza della passione. Enrico scrive sognando l’idea della continuità del cuore e dell’alito vitale. Immagini apparentemente lontane dal suo quotidiano vivere fatto di notti insonni e raminghe e di giorni senza sole, avvolto nel buio di una stanza dove non filtra luce, nascosto nel cespuglio delle lenzuola. Vicino al paradosso luminoso dell’amicizia e alla maledizione dell’eros. La sua poesia ne è convincente emanazione.
Proprio ciò che appare immediato e gettato sulla carta è testimonianza di una costruzione fluida e razionale che segue appunto il ritmo del cuore e rispecchia l’abisso dell’anima.
Enrico ci dona il suo scrivere come se questo fosse il germinare della spontaneità ma quando le parole si costruiscono in versi e i versi si strutturano in poesia nel mutuo rapporto chi legge può investirsi nello stato d’animo del poeta, così da donare alle liriche quell’impegno di pensiero che è desiderio di capire e voglia rivoluzionaria di superare l’abiezione attuale e l’odierna mediocrità, lontani, sempre più, da ogni slancio di poesia, di impegno e di senso.

                                                                                                Maestro Alessandro Anniballi

lunedì 19 aprile 2010

Lezione n° 2





Salvatore è a casa della persona che lo ospiterà per il suo soggiorno. E’ Marisa, una donna di 40 anni con i capelli cotonati. Fa la permanente due volte alla settimana. Salvatore si trova alla porta della casa: ha appena suonato il campanello. Sta aspettando, ma il campanello non sembra funzionare. Allora decide, a costo di passare per maleducato, di battere un paio di volte le sue nocche al legno della porta. Si sentono dei passi. Dal filo spezzato di luce che filtra sotto la porta si capisce che qualcuno è venuto ad aprire. La porta si spalanca di colpo.







M._ Salvatore, sei tu?
S._ Si Marisa, sono io.
M._ Ti immaginavo più vecchio. Allora, com’è andato il viaggio?
S._ Bene. E’ stato difficile trovare i bagagli all’aeroporto.
M._ Strano, di solito basta seguire la serie di Fibonacci. Ma sarai affamato e stanco. Hai fame?
S._ Un po’.
M._ Vieni, ti mostro la stanza. Puoi rilassarti un po’, intanto ti preparo qualcosa.
S._ Grazie.

Salvatore è già stanco di sforzarsi di parlare questa lingua. Si gode quindi per qualche minuto la calma della stanza silenziosa, fino a quando fuori dalla finestra non passa il treno. Non è il momento di dormire. Esce e raggiunge la porta illuminata alla fine del corridoio. Questa deve essere la cucina, pensa. Marisa è lì, ha in mano un tostapane.

M._ Volevo farti due toast, ma il tostapane non funziona.
S._ Non ho fame.
M._ Ma devi averne, e io devo offrirti qualcosa: sei appena arrivato, non voglio essere maleducata. E poi il copione dice così.
S._ Sto bene. Sei gentile.
M._ C’è un problema a filo elettrico. C’è sempre un problema al filo elettrico, in questo posto. La corrente così perde il filo e non ci capisce più niente. Poi salta la luce e si spegne la TV, e io poi non so mai se il commissario di Centrale di Polizia è ancora vivo, e il giorno dopo faccio la figura della scema, e mentre faccio la permanente non ho mai niente di carino da dire. Stai tranquillo, ora lo aggiusto.
S._ E’ una bella casa. Sto benissimo.
M._ Eh, con questo treno che passa continuamente! Se vuoi che sia sincera, così facciamo amicizia, devo dirti che questa casa è una merda, dal piano di sopra filtra l’acqua del lavello e mi fa ammuffire tutta la carta da parati, mentre dall’appartamento di sotto sale tutto il fumo della cucina e porta quest’odore di cipolle che senti. Qui tutti non fanno altro che tagliare cipolle, piangere, mangiare cipolle. Solo che quelli dell’ultimo piano ci mettono il pane grattugiato.
S._ Sono felice di essere qui: posso parlare questa bellissima lingua, e imparare.
M._ Ho smesso di imparare quand’ho finito la quarta elementare. Da allora non è accaduto praticamente nulla d’importante. Forse le sole cose importanti sono quelle che non sono avvenute: nessuno ha cercato di sposarmi, nessuno ha voluto mettermi incinta, nessuno mi ha mai portato un pesce appena pescato per farmelo cucinare, nessuno mi ha guardata negli occhi, nessuno mi ha mai sculacciata, nessuno ha mai riparato nulla per me, nessuno mi ha mai comprato qualcosa, nessuno mi ha mai rivolto la parola: a cosa serve imparare a parlare, dico io, se poi nessuno ha voglia di dire niente?
S._ Scusa, puoi ripetere? Non ho capito.
M._ Non ti preoccupare, adesso ti preparo un bel toast.

Così disse la signora, matura e gentile, e infilò la spina del tostapane nella presa. Non successe nulla. Nulla di importante, ma neppure nulla di non importante.
Così infilò le dita nel tostapane e i suoi capelli si drizzarono mentre lei stessa, con tutta la cucina attorno, irradiava calore e luce in quel cielo chiuso di cipolla bollita.
Una luce che non scalda ma illumina.

sabato 17 aprile 2010

Equilibristi #2

(per leggere il cap precedente clicca qui)
1.



I solitari leggono molto, ma parlano poco e poco sentono dire: la vita per loro è misteriosa. Sono mistici e spesso vedono il diavolo dove non è.
(A. Cechov)


“Cosa posso prendere adesso?
”
“un taxi!”
“va bene, allora fammi un taxi, ma con poco ghiaccio.”
(in un bar)




Un giorno il professore entrò nel bar: aveva un'aria piuttosto sciupata. Dagli occhi sembrava uscire un'aria pestilenziale, nel cervello i cavalieri dell'apocalisse dovevano martellargli direttamente le meningi e inutilmente i muscoli del viso cercavano di mantenere la pelle del viso tesa in una maschera rispettabile. Sembrava un criceto smarrito: lanciava occhiate di qua e di là, dalla zuccheriera alla barista, dal pavimento ai lampadari, di nuovo la barista, cercando il gesto complice, biascicando finalmente "...il solito...", tornando ad ammirare le bustine di zucchero, misurando le distanze da percorrere con le mani, contemplando soddisfatto la posizione dei suoi piedi, quando, posato il gomito sul bancone, finalmente può godere di una posizione relativamente stabile.
Enrico, è il suo nome.
Succede in certe strane mattinate che il mondo perda la sua solita consistenza: allora le molecole sembrano allentare i loro lacci, gli atomi schizzare impazziti, le scarpe ora incollarsi al pavimento, ora galleggiare senza attrito, la visione dimostra che la diffusione delle onde, i movimenti di quelle invisibili, innominabili particelle, sono diventati sghembi: gli occhi fissano un cielo che, stabile da millenni, improvvisamente ha accelerato e si muove ora avanti, ora indietro, e sembra fermarsi ma solo per scattare ancora indietro e poi rovesciarsi avanti, roteando e martellando una coscienza che sembra dover imparare tutto di nuovo.
Se qualcuno, come me, se ne accorge, probabilmente apprezza i suoi sforzi: è come un bimbo che impara a gattonare. Ma è anche quel che resta di un diavolo sconfitto che ora paga le sue pene: quell'aria contraddistingue chi precipita da grandi altezze, e chi ha tentato inutilmente di alzarsi in volo, nella ressa di un locale pieno di studenti, o sul tappeto diagonale dell'hascish ha sognato di avvolgersi negli arabeschi che fa la luce dei lampioni infiltrandosi in casa e mescolandosi con quelle delle stelle più decadenti. Ieri quel mondo liquido tutto avvolgeva, ed era un brodo che protegge, una danza tra membrane plastiche che si infrangono silenziosamente.
Bene, ho tempo da perdere, anche oggi. Spero ne abbiate anche voi.
Viviamo in un mondo dove non si gioca mai: la comunicazione è diretta o, quand'è indiretta, è sempre fin troppo esplicitamente seducente. Dobbiamo avere sempre bisogno di qualcosa, e quando non possiamo permetterci più niente, scopriamo non avere dei veri desideri. E così non sto vendendo niente, e per me il mondo è sempre composto di volumi fluidi che si intersecano.
E questa mattina il prof paga i postumi di una bella e sonora sbornia.
Ma è proprio questa mattina che qualcosa deve accadere: come faccio a saperlo, vi chiederete?
Perché sono il diavolo, ovvio. O perché sono io che sto raccontando questa storia.
Quindi, ricominciamo: ogni mattina quasi tutte le persone che conoscete entrano in un bar.