mercoledì 21 aprile 2010

Aqualung (ovvero: omaggi incrociati)

“Aqualung”

Maria, Maria, stringo in pugno il tuo nome
come il poeta stringe i versi sudati in tutta la notte
e mi sporchi le linee della mano come
tutto il sangue speso in quattro botte farabutte.

ogni mattina che ti vedo mi faccio le mie domande
com'è che hai quegli occhi così, proprio tu,
e perchè capisci benissimo che sto andando a recitare
ogni mattina, parlando di insegnare
e chi è che truffa di più se tu o me, me lo chiedo.

So che la tua pelle odora da lontano d'amore, e che vendi
tutto quanto perchè quando uno di noi piange sei tu che stendi
ad asciugare i suoi sogni, ramazzi via gli orgogli
ogni volta che qualcuno pensa che quel suo io piccino
abbia sul serio bisogno di una cura speciale
ma tu sfuggi con gli occhi di pantera, alle pantere della notte
alla polizia, alle botte di ragazzi che non impareranno ad amarti,
amari come sono,
ma diversamente da me tu sai lasciarli sbagliare.

Qualcuno grida alla truffa, buttando sul piatto
la morale offesa, la mercificazione del tuo corpo che
se è vero che lo vedo camminare ogni mattina,
come quella crepa sul parabrezza della mia macchina che
ancora non mi decido a riparare, il tuo corpo
che rapisce allegri giardinieri, socialisti impegnati, giornalisti, 
architetti tutti tesi ad architettare quella
loro sera di festa, appesi alla loro stella cometa,
così tu vendi loro, al mattino lo capisco, nella mia
assoluta mancanza di voglia di scoprirmi posizionato
alle consuete giuste coordinate di questo pianeta: sei
pericolosa come la morte, per questo scivolano a te
come le formiche.

Ma anche le formiche sono tue amiche, se è vero
che dalle briciole del pane può nascere altro,
in modo insospettabile, e la fame ha ben poche domande:
la sera ascolti una canzone per te
c'è un eroe anche stanotte che si perde giocando
con la sirena: girano sempre più strette le sirene
convinte di arrestare questa minima bomba
sieropositiva, dicono. La canzone è per i tuoi piedi,
per quel tuo modo di camminare, il segreto delle tue gambe,
il sortilegio della tua verginità la gioventù
che vola dipinta nel blu dipinto di blu.

Chi canta ha le unghie sporche ed ha scavato la terra
come le formiche ha dimenticato di essere qualcuno
e trema guardando le persone che corrono lontano
e si piega per ogni violenza che vola di mano in mano
non ha forza per contrattare, e tu non lo fai pagare
in questo gioco di vivere per morire,
che te ne importa di ogni filosofia se canta una poesia
per te
se le formiche lavorano sodo e sono le migliori amiche
in quei loro silenzi,
cosa importa se la voce stessa odora di morte
se il collo assume sempre più la forma di uno scalino
se i capelli sono un pelo arruffato scappato lontano
da ogni lama dalle tue inutili dita di bambina.

Ha il respiro corto il tuo angelo, stanotte:
è uno che troppo a lungo ha amato sirene,
ha finito da tempo le cure, le pasticche,
neppure il mare l'ha voluto tenere stretto, nel grembo,
ha venduto le ali per un litro di vino,
canta ancora, di temporali lontani, e lo sai che lo ami
con quel tuo amore che resta arrotolato molto prima delle parole
sei nelle sue favole e tu sei in lui la tentazione
mentre ti parla di quello che sarà e non sai capire
quella sua voce che si assottiglia sempre di più.

Tutti ti conoscono, tra questi vicoli.
So dei miei studenti eccitati per quel tuo collo malato
e dei loro padri e dei padri dei padri da quando esistono
i lampioni morire e pagare per quel tuo gusto di lamponi
quei tuoi occhi perfetti che non si sono mai guardati allo specchio
per lo zucchero filato che nascondi e offri,
per il contrabbando di vita, travestita da morte,
e la piccola morte che spandi attorno a te, a tariffa
variabile. E tutti chiedono di te, per amare e per mangiare,
in un modo e nell'altro.

Aqualung ha smesso anche di mangiare, sei un abito smesso
e le stagioni accelerate al massimo, sei l'energia
per volare sugli anelli di Saturno, per lui,
che smettendo tutte le sue facce nei naufragi compiuti
ha conservato l'allegria di cantare
anche quando non arrivano le parole, quando la canzone
è il battito del cuore guasto, il respiro che inciampa
nelle mille trappole che incontra.

Gli amici cariati fanno l'altalena sulle tue ciglia
sei la passante che non passa, e lasci che tutti
abbiano la loro possibilità di sbagliare.

Sono stati impiccati tutti i falegnami da secoli: ricordi?
Vieni dal bagnasciuga, tu. Ti guardo,
scopro in ritardo il peso delle finzioni
e non importa più domandarsi come funzioni: nel letargo
dei nomi collettivi le tue ciglia inventano
fuochi e segnali, rispettabili malattie morali, e mortali
desideri, nostalgie dei sogni sognati tanto tempo fa,
la restituzione infinita: mentre la festa si annuncia.

E' una parata di desideri, mentre ti addormenti.
Il buon vecchio non ha nulla da insegnarti: dice che
partorirai un figlio.
Non me ne meraviglio. Tutte le cose andate finiscono qui
e tutti i sollievi ad ogni cuore smarrito che hai inventato
con le tue sottili mani, i colpi delle anche,
smantellano le banche delle fate, che ridono nell'aria,
mentre chi cantava per te non canta già più
mentre tutto sta cadendo giù
mentre le vecchine cadono per strada senza alzarsi più
mentre le parole si stiracchiano per un nuovo sporco lavoro
ecco il frutto del seno tuo Gesù.

Lo svolgimento delle storie gioca con le memorie
e non sono altro che correzioni, e inciampo anch'io
tra le rotture di coglioni, e cado, e dio
aspetta una cameriera per imparare a giocare
e tu, col tuo gesù, povero bimbo pazzo,
povera tigre a molla, mostro a razzo,
dimentichi di parlare: impazzire bisogna.
Questa notte prima di cominciare
a dimenticarti proverò a sognarti: imparare
ad amare.
Dormirai tra le umide lacrime dei cimiteri
cullata dalle mani dei carpentieri,
la fame non ha fede nè colore, non ha progetti
e non ha storie.

Maria, Maria, stringo in pugno il tuo nome
come il poeta stringe i versi sudati in tutta la notte
e mi sporchi le linee della mano come
tutto il sangue speso in quattro botte farabutte.

Ogni disegno ritaglia dall'infinito
un'eventualità di felicità: dove guardano i tuoi occhi
oltre gli uomini che tocchi, o proprio dentro di loro?
Giocando con il tempo, io entro, scontroso,
ora lavoro, mi riposo, mi risposo,
vorrei imparare a dimenticare.
Sei ancora lì, gelida puttana
a scaldare i vicoli dei soli di marzo:
ogni volta che mi alzo, penso che la tua esistenza
mi getta in faccia l'esigenza di nuove perversioni
nuove violenze e nuove parole.

Vorrei imparare a cantare.
I bambini che dormano, mi dico: l'alba verrà,
mescolata alle stelle, e questo lavorare
avrà di nuovo l'uomo. Esiste l'uomo che ripara le cose.
Esiste chi vive delle tue calze rotte.
E mi sporchi le linee della mano come
tutto il sangue speso in quattro botte farabutte.

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"e dico che una poesia si corregge con un'altra poesia, un corollario con un codicillo):" (E.Sanguineti)

E allora, cosa aspettate? Le parole chiamano parole...