lunedì 25 aprile 2011

Emilio Lussu, "Un anno sull'Altipiano" "Marcia su Roma e dintorni"



Oggi, Emilio Lusso: scoperta buona per la terza media, in effetti, eppure autore temo trascurato.


Cosa mi colpisce: è stato scrittore avverso al fascismo – nel senso dell’estetizzazione della vita – almeno quanto uomo avverso al fascismo – uomo che reagisce con la politicizzazione dell’arte.
Lussu è un buon esempio di quel filone di memorialistica bellica che, stagliandosi per meriti letterari dalla massa della memorialistica buona come fonte storica, giunge fino a Rigoni Stern: persone che avendo vissuto un’esperienza storicamente ed umanamente decisiva, scampati, sentono il bisogno di narrarla.
Allargandoci un po’ potremmo far rientrare in quest’area memoriale molta – e forse la parte migliore – della narrativa italiana del XX secolo: Primo e Carlo Levi, il primo Calvino, Vittorini, Pavese, Fenoglio, per citare solo i primi nomi che mi vengono in mente in questo appisolato pomeriggio di prima primavera.
Ma non mi interessa tracciare genealogie; preferisco indicare, quale tratto decisivo di questo variegato insieme, l’elemento dell’antiretorica: la storia ha smarrito (finalmente) ogni plausibile disegno provvidenziale – per qualcuno, forse per molti, è restato in piedi il disegno della dialettica marxista, non so quanto ben digerita – ed allora perduto il disegno storico non resta che il memoriale (più o meno giocato sull’autobiografia o sulla narrazione eterodiegetica) che non potrà non essere in primo luogo memoria di una domanda, che la storia ha posto, e dell’umana risposta, in una gradazione che può andare dalla presa di posizione ideologica all’espressione della perplessità umana.
La memoria infatti arriva in seguito, è questa la prima avvertenza: il gesto di scrittura è differito, l’occasione non è il momento vissuto, e il gesto della memoria serve anche a rintracciare il senso dei comportamenti, le motivazioni delle scelte, le giustificazioni forse alla buona sorte che ha portato infine al momento della scrittura.
Tutto questo in Lussu accade incredibilmente due volte: vissuta al fronte la Grande Guerra, vivrà altrettanto al fronte, da deputato fino al confino, il sorgere del fascismo e il suo impossessarsi dello stato.
In entrambi i casi (“Un anno sull’Altopiano” e “Marcia su Roma e dintorni”) il romanzo (il romanzesco, ma anche l’unità dell’esperienza vissuta) muore, e ne esce una narrazione aneddotica, a malapena rappresa attorno alla tesi di fondo: l’inettitudine ufficiale dell’esercito patrio, in un caso, l’inettitudine istituzionale e del variegato antifascismo nel secondo.
Proprio questo tipo di narrazione mi interessa: l’aneddotica deve operare necessariamente in base a selezione e un montaggio: quel che leggiamo è il sunto di un’esperienza traumatica, montato poi sulla base di un’intenzione d’autore – questi testi sono gesti politici, in particolare il secondo, scritto proprio per la diffusione dell’antifascismo all’estero. I vari episodi esistenziali – ritagli di un testo il cui contesto rende valicate di fatto le frontiere tra pubblico e privato: mirabile esempio di come l'aver qualche cosa da dire renda superflui sia i giochini strutturalistici sia le speleologiche digressioni più o meno psicanalitiche – sono ritagliati e montati secondo una tesi di fondo da dimostrare; superfluo qui discutere tale tesi. Non ha molto senso ora stabilire ragioni e torti. Quel che più mi sembra interessante è la possibilità di gustare il dibattito di allora, con un effetto studiatissimo di “anti-fiction”: fosse questa la ricetta buona per dare una smossa ad una narrativa buona solo per gli inserti culturali, per gli impegnati da salotto.
Io mi rifiuto di continuare ad avere a che fare con persone che sono in grado di discutere di feriti in battaglia, torture, morti ammazzati, mentre degustano vermentini e paglia e fieno. Aprire gli occhi sui fatti rende ognuno colpevole: ogni guerra è una guerra civile, scrisse Pavese, prima che il suo suicidio venisse a chiudere l'ambiguità tra impegno ed estetismo classicheggiante.
E la guerra che prima o poi verrà sarà veramente di terra e sangue, polvere da sparo e tattiche, e tecniche, infine.
Non è un caso che il caso letterario degli ultimi anni sia stato “Gomorra”, che vale, nella mia ipotetica genealogia, come più recente caso: la parola è già un gesto di battaglia, se esiste una società che di quella parola sa fare realmente una questione. Se questa società non esiste più, restano soltanto i rumori delle ossa che si rompono tra i ragazzi di Seattle e Genova. Se questa società non esiste più, il parlamentarismo diventa vulnerabile, e vulnerato probabilmente in questi ultimi anni più volte, perché è svuotato ogni senso al luogo in cui si parla. Se questa società non esiste più non resterà che l'odore: odore dell'asfalto quando ci si china in terra per non vedere il prossimo omicidio.