mercoledì 13 luglio 2011

Due imperi mancati, Aldo Palazzeschi

Senso di colpa poetico?
Questo libro può diventare allegoria del primo scacco matto patito dall’avanguardia; che poi ci sia voluto un ulteriore secolo, altro non sa a significare se non l’onta di questo mito di modernità che di sé conosce solo il sogno che ne fa, perché doveva essere chiaro – prometto per questo di leggermi “Esame di coscienza di un letterato” di Serra – che la modernità che il futurismo inaugurava se da un lato ci salvava dalla rottura di palle del fanciullino pascoliano dall’altro stava cominciando a cantare non soltanto la bellezza della morte (“una spacconata dannunziana!”) quanto direttamente ad attrezzarsi per cantare direttamente l’autoannientamento umano.
Palazzeschi scrive uno strano libro di guerra, in un momento in cui proliferavano gli scritti dei reduci (rimando, per questo, sul versante poetico a “Le notti chiare erano tutte un’alba” a cura di A.Cortellessa, Bruno Mondadori): nel suo libro infatti non compare mai, la guerra. Forse perché già avvertiva che l’esperienza iniziatica della guerra incubava il nascente fascismo? Non lo so, quel che mi importa, che mi piace di questo libro è che Palazzeschi, la cui lezione più valida resta senz’altro l’impegno del suo straniante disimpegno e il disimpegno del suo ludico impegno, giunge a porsi la domanda profetica che sarà poi di Brecht: “perché i vostri poeti hanno taciuto?” E nel momento in cui si pone questa domanda la vibrazione dadaista di Palazzeschi esce allo scoperto: qui non si tratta di baloccarsi con gusti letterari/estetici ma di posizioni, di scegliere dove sedersi, come avveniva nel senato romano, ossia di rendere manifesta una politica, un’intenzione, un’ideologia.
Mai tanto chiaro quanto nel XX secolo che scegliersi un linguaggio significa inevitabilmente acquistarsi un’ideologia; e che crearne, di linguaggio, significa – è questa l’aspirazione di tutta l’arte sperimentale – creare una nuova politica.
Cosa c’è di Dada in Palazzeschi? La pretesa di innocenza: d’innocenza la protesta.
Non serve qui elencare la mitologia di quest’innocenza marginale, spaesata, idiota persino, asociale spesso e incendiaria (pirotecnicamente parlando spesso). Quest’innocenza è cercata nei fonemi sgangherati, nell’alterità della massa (ma infine non viene ad esistere una fin troppo corposa massa di estranei alla massa, o forse la massa stessa ormai non è composta di queste estranee solitudini?), ma soprattutto, in breve, nell’emblema stesso di ogni avanguardia centrato in pieno da Marinetti quando scrive: bisogna avere il coraggio di fare il brutto in arte.
Pensiamoci un po’.
Penso di poter dire che fino alla modernità un’arte brutta semplicemente non era arte: c’erano criteri tecnici per giudicare sull’artisticità. E qui si apre semmai il problema dell’evoluzione delle forme/tecniche espressive, del progressi “esplosivi” di cui parla Lotman, dei rapporti tra questi e la storia(economia/società). Ma nella modernità, ovunque poi inizi, questo giudizio non è più così pacifico. Da un lato viene emergendo un’urgenza di realismo che, a mio parere, discende dalla prime scalfitture del ruolo dell’artista considerato come produttore, e questo realismo lentamente apre le porte (e le finestre) all’idea di una bella (tecnicamente) raffigurazione del brutto (la realtà comincia a diventare semplicemente brutta, nella modernità!). [Per ulteriori ricerche forse bisognerebbe orientarsi sul barocco.]
Il limite di questa linea resta la massima (ora non ricordo chi lo scrisse, forse Gadda o Benjamin?): la descrizione del disordine non può essere una descrizione disordinata. Ma al di qua di questo limite esistono molte trasgressioni possibili, e bene o male l’avanguardia storica le prova tutte.
Dapprima quel che è brutto è recuperabile come innovazione tecnica: dall’impressionismo al surrealismo, passando per il futurismo, questo sarà il limite invalicabile: qualsiasi sia l’esperimento, il presupposto dell’arte quale campo d’esperienza privilegiata e veicolo di comunicazione “iniziatica” non verrà mai scalfito. Lo sparo a caso sulla folla resta nel libroed è così che tra le forme dell’arte arriva ad essere incluso anche l’omicidio (ma letterario, appunto, che altrimenti resta ben limitato nel campo del codice penale). L’autonomia dell’estetico diventa una prigione di gomma o anzi, per sociologi in erba, un nuovo paradigma (ah, così Vendola è contento!) della sorveglianza degli equilibri sociali.
Bene, credo di aver esagerato, e chissà se mai riuscirò a chiudere queste considerazioni in un testo chiaro ed ordinato. Ma almeno credo di aver dato un’idea, così come una riga di polvere sulle mensole significa tanto quanto i titoli che lì sono deposti. Torniamo al nostro Palazzeschi: l’innocenza passa per il brutto. Questo fu l’equivoco. Perché di altro non si trattava che dell’ennesimo aggiornamento tecnico entri i limiti strutturali (nel senso che si agiva trasformando la combinatoria degli elementi, degli oggetti, dei repertori, dei registri) e sovrastrutturali (precisamente perché all’interno di quei limiti restò tutta la faccenda). Ma la necessità di questo aggiornamento era poi assai strutturalmente determinato dal pieno sviluppo di un determinato modo di produzione e dalla tecnica connessa e dai nuovi prodotti in egual misura tecnici e commerciali.
Il tentativo dell’avanguardia – e non solo dell’avanguardia – non sa risvegliare un mondo immerso, come una bella addormentata, in una intorpidita ebbrezza ipnotica ed estetica, perché il futuro dell’innovazione tecnica futurista è perfettamente omologo allo sviluppo tecnico industriale, e l’ironia, che resta pur sempre la carta migliore che fu possibile giocare, scontò, e proprio attorno a questo libro, il suo limite pratico.
L’ironia auspicava infatti un contagio del disincanto nelle nascenti masse etero dirette e probabilmente, invece, disincantò le masse solo per apprestare le nuove auree tecnologiche. La forma d’arte che verrà di lì a poco sarà definitivamente racchiusa nei circuiti commerciali trasformandosi in pubblicità.
E forse tutto questo è già chiaro in questo libro impubblicabile di Palazzeschi: la sua ironia diventa gridata, manifestando tutto il disagio di chi parla a chi non vuol capire; la tecnica su cui tante speranze e sogni si basavano si rivela infine nelle nuove tecniche di annientamento dell’umano sviluppate e collaudate durante il primo conflitto mondiale.
La carneficina della prima guerra mondiale rivela già lo scacco di tutta una cultura, un’ideologia, un mondo. E mentre quella guerra finisce, anticipando in questo la seconda metà del XX secolo, con l’ingresso degli USA nel grande affare bellico e con una rivoluzione di popolo in nome dell’unica ideologia che, per quanto impossibile, ha retto per almeno due secoli – sto parlando del comunismo -, un poeta, che cerca quasi ingenuamente di sfogare il proprio storico disincanto, si trova costretto ad armeggiare con faccende quali il concetto di nazione, di famiglia, di borghesia e di guadagno. E nello stesso tempo, dopo tanto disincanto, si trova costretto a postulare, in modo quanto mai scettico ma ugualmente praticamente urgente, un incanto legato alla specificità del linguaggio poetico. Ma una specificità tutta nuova, penso.
Perché i poeti hanno taciuto?
Rispondere perché non erano poeti lascia comunque irrisolta la domanda: chi sono io, saltimbanco dell’anima mia?
E quest’”anima” – teniamo la parola nonostante le sue molteplici compromissioni, grida precisamente come ciò che lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, e del suo mondo conseguentemente borghese, ha cancellato.
Oggi sono stato confuso e prolisso: per sperare nel perdono vi chiedo di leggere questo libro tenedo in considerazione questa avvertenza: (trattasi di Marx)
«La lotta di classe [...] è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non si danno cose fini e spirituali. Queste ultime, però, sono presenti nella lotta di classe altrimenti dall'idea di una preda che tocca al vincitore. In questa lotta esse sono vive come fiducia, coraggio, gaiezza, astuzia, perseveranza [...]»


Vi ricompenso con qualche citazione altrettanto prolissa, ricordando che il critico è sempre uno che lavora prima di tutto di forbici.

“Ma io mi sento una molecola di questo globo e al tempo stesso imperatore di esso come Guglielmo II non ha potuto nemmeno mai sognare. Non c’è buco sopra la terra che non sia il mio paese, io posso se mai avere una speciale tenerezza per la poca terra che circondò la mia culla, ma che questo non diventi una mania, che non appanni per un istante solo la lucentezza della mia anima universale. […] Io sono di tutti i paesi e tutti i paesi sono miei, se vi ho detto che sono imperatore di tutto il mondo come mi posso sentire suddito di un pezzettino di esso? Io non sono nemmeno un uomo, non ci tengo ad esserlo, io sono una creatura sensuale, un palpito libero dell’aria.”

“C’era una persona dalla quale questa guerra doveva venire condannata e respinta: l’artista, e su tutti il poeta.
Una guerra senza idea, la cui anima folle e perversa serviva bestialmente il più laido e vile affarismo, l’interesse individuale più cinico, come poteva essere accettata da lui, anima errabonda, naufraga nelle sudice acque della società che di lui si disinteressa o falsamente se ne interessa, e alla quale solo pochi altri naufraghi si aggrappano ardentemente, ma che una fiamma interna illumina e nutrisce e rende più felice e orgoglioso di qualunque miliardario? Questa superba creatura che ha un cervello e un cuore ancora miracolosamente puri ed umani doveva ritirarsi livida, offesa, contrtta nel suo rifugio, e difendere strenuamente il proprio tesoro immortale e incorruttibile. […] No, amici, non si può essere così acrobati per fare senza pericoli certi salti mortali. Dalle cime del sentimento e dell’intelligenza non si va a sedere comodamente sulle morbide colline dell’imbecillità, o della malvagità incosciente e volgare, se si cade si rotola fino in fondo, nella fossa profonda del dolore. […] Questa guerra in quasi tutti i paesi fu patrocinata, appoggiata, sostenuta proprio da questa razza di gente.”

“Non appena arrivato fuori dalla stazione vidi sventolare bandiere di ogni colore e dimensione, era una bella giornata di metà Novembre, domanda e mi dissero di non so quale festa degli Stati Uniti d’America, un brivido freddo serpeggiava nelle mie ossa come avessi fatto l’ingresso in una festa macabra. Il giorno dopo doveva essere un’altra importante ricorrenza perché le solite bandiere sventolavano, domandai, e mi fu risposto che no, ma si attendeva non mi ricordo che Re. Eppoi ambasciate, messaggi, ministri in arrivo e in partenza. I giapponesi, gli inglesi, gli arabi, gli scozzesi, musiche di ogni razza e colore, balli e trattenimenti a beneficio e in onore dei ciechi, dei monchi e degli zoppi, ufficiali inglesi e francesi, gli ultimi avanzi dell’esercito serbo, i ristoranti, le osterie ne erano zeppi, si mangiava, si cantava e si beveva del buon Frascati. Vi erano ricoverate profughe le più scintillanti dame di Venezia, di Padova, di Verona e Vicenza, i veri profughi erano stati mandati nei castelli, niente ospedali, niente prigionieri, e niente disertori. Pareva che il dolore fosse stato vinto.
Domandai ancora, che seccante non è vero?, per potermi iniziare nel mistero e mi fu risposto che così e non altrimenti doveva essere, che quello era il centro della resistenza. Pure sembrandomi che a quel modo fosse assai facile resistere, non replicai.
Roma era la grande fucina della guerra, il cuore del mostro, e la si era presa dal suo lato buono, la ciclopica industria vi faceva correre rivi di denaro, e parevi leggere sulle facce di tutti: la guerra è bella. Basta non la fare. […] Avresti detto che si festeggiasse ogni giorno anticipatamente la vittoria, e si prendessero acconti su quella gioia che doveva venire. Che la vittoria non c’era stata te ne accorgevi solamente perché tutte quelle feste finivano con un unico grido: viva la guerra! Viva la guerra!”

“Avete saputo inventare tanti ordigni, e solidi e liquidi e gas, per distruggerla, questa umanità, nella maniera più assurda e infame, quando non ne avevate nessun diritto e nessuna giustificazione, trovatene per non farla nascere. Voi chiamate i vostri figlioli a venti anni, quando ogni giorno è stato una promessa, dopo avergli lasciato intravedere la bellezza del cielo e del sole, sentire l’ignota attrazione dell’infinito, e gliela soffocate in gola, a quei poveri bamboccioni, la vita che gli avete dato, con un fiotto di sangue, nella più terribile agonia.”

“Il capitalismo _ E’ lo scoglio sul quale tutte le vostre onde s’infrangono. […] E’ al cuore che dovete trafiggere il mostro. Finché i padri lavoreranno coi figli come vi disferete di questo frutto? E’ troppo giusto e troppo naturale. Ma quando io sarò principio e fine a me stesso, quando con me cadranno e casa e nome, che ragione avrò più di accumulare ricchezze? Non ragione, né dovere, né diritto. Io sono responsabile di me. Se lascerò un sacchetto d’oro che per il mio buon lavoro, o la mia saggia economia mi sia avanzato, nulla di male, esso apparterrà non ad un vivo, ma a tutti i vivi della terra, alla vita ch’io lascio.”

“Sarà dottore chi mostrerà di poterlo essere degnamente, non chi avrà denari da sciupare in una qualsiasi università, e insegneremo la bellezza di tutti i mestieri, di tutti i lavori, e specialmente di tutti quelli più vicini alla grande madre nostra terra.”

“Vi diranno con voce da angelo che fan la guerra per la pace e ognuna sarà l’ultima. E sarà guerra su guerra e sempre guerra, tutta la loro vita sarà una catena infinita di guerre. […] Si è travestito il mostro. Non più porpora, non corona sulla testa e scettro nella mano. Veste come tutti voi. Il nuovo trono è una cassaforte grigia, lì è tutto il suo cuore, e il suo Dio. Lo abbiamo riconosciuto e lo denunziamo, sappiate tenerlo d’occhio.”

“Tutto quello che c’è di deleterio in Italia è del D’Annunzio. Raccoglie egli la fiaccola lasciata a terra da quella vecchia chitarra del Carducci, che a sua volta la raccolse da quell’altro trombone sfiancato dell’Alfieri. E’ un posto che non può rimanere vacante, a costo di prostituire il meglio di sé e far galleggiare nel sudiciume, la tentazione è grande, uno ci andrà. […]
La guerra d’Italia come fu fatta altro non è che una spacconata d’Annunziana senza senso, senza abilità senza profitto. E ve l’ha guarnita per tutti i suoi giorni, infiorata, incoccar data, di inni, odi e canzoni, orazioni, invocazioni, imprecazioni, inaugurazioni, commemorazioni e avventure d’ogni specie: sulla terra e per l’aria sotto e sopra l’acqua, come si fosse trattato di una grande partita ginnica, un torneo nel quale tutta la gioia dei muscoli e dei polmoni dovessero avere a pieno il loro sfogo. […] Vedevano ancora, tali uomini, i popoli come le plebi di migliaia di anni fa, e vivono nell’ebbrezza di risuscitare Leonidi, e guerre puniche, centauri, aquile romane, ali di vittorie, rottami di grandezze estinte […].
Quelli di essi che si credono all’avanguardia si spingono a cantare la gigantesca bellezza del cannone o la genialità bizzarra della mitragliatrice, gonfi di ebbrezza per la strada compiuta dal vecchio randello di Caino.
Raspategli bene addosso, e sapete che ci troverete in fondo? Un ufficiale di cavalleria. Creature viventi fuori della realtà e della vita, creatori del vuoto. […] La realtà non esiste e non li tocca, sono fuori di essa. E cantano e cantano. […] Inconsciamente divengono pericolosi strumenti che abili mani calcolatrici sanno bene sfruttare e manovrare.

“I cattivi governanti alla fine del loro gioco si ritirano in nostalgiche ville piene di raccoglimento e poesia.
I popoli dovranno sciacquare nel sangue i cenci sporchi della loro insipienza e malvagità.
La guerra non si fa.
La guerra non si deve fare per nessuna ragione al mondo.”



mercoledì 18 maggio 2011

Chi l'ha visto?

Scartabellando dopo molto tempo, ho scoperto che il 30 aprile qualcuno è passato a visitare il mio blog per quasi un'ora sbirciando 26 pagine: non pensavo neppure di averne scritte tante! Ora è inevitabile che questo picco di attenzione si accompagna ad un pizzico di curiosità: perché non hai lasciato alcun segno del tuo passaggio?

lunedì 25 aprile 2011

Emilio Lussu, "Un anno sull'Altipiano" "Marcia su Roma e dintorni"



Oggi, Emilio Lusso: scoperta buona per la terza media, in effetti, eppure autore temo trascurato.


Cosa mi colpisce: è stato scrittore avverso al fascismo – nel senso dell’estetizzazione della vita – almeno quanto uomo avverso al fascismo – uomo che reagisce con la politicizzazione dell’arte.
Lussu è un buon esempio di quel filone di memorialistica bellica che, stagliandosi per meriti letterari dalla massa della memorialistica buona come fonte storica, giunge fino a Rigoni Stern: persone che avendo vissuto un’esperienza storicamente ed umanamente decisiva, scampati, sentono il bisogno di narrarla.
Allargandoci un po’ potremmo far rientrare in quest’area memoriale molta – e forse la parte migliore – della narrativa italiana del XX secolo: Primo e Carlo Levi, il primo Calvino, Vittorini, Pavese, Fenoglio, per citare solo i primi nomi che mi vengono in mente in questo appisolato pomeriggio di prima primavera.
Ma non mi interessa tracciare genealogie; preferisco indicare, quale tratto decisivo di questo variegato insieme, l’elemento dell’antiretorica: la storia ha smarrito (finalmente) ogni plausibile disegno provvidenziale – per qualcuno, forse per molti, è restato in piedi il disegno della dialettica marxista, non so quanto ben digerita – ed allora perduto il disegno storico non resta che il memoriale (più o meno giocato sull’autobiografia o sulla narrazione eterodiegetica) che non potrà non essere in primo luogo memoria di una domanda, che la storia ha posto, e dell’umana risposta, in una gradazione che può andare dalla presa di posizione ideologica all’espressione della perplessità umana.
La memoria infatti arriva in seguito, è questa la prima avvertenza: il gesto di scrittura è differito, l’occasione non è il momento vissuto, e il gesto della memoria serve anche a rintracciare il senso dei comportamenti, le motivazioni delle scelte, le giustificazioni forse alla buona sorte che ha portato infine al momento della scrittura.
Tutto questo in Lussu accade incredibilmente due volte: vissuta al fronte la Grande Guerra, vivrà altrettanto al fronte, da deputato fino al confino, il sorgere del fascismo e il suo impossessarsi dello stato.
In entrambi i casi (“Un anno sull’Altopiano” e “Marcia su Roma e dintorni”) il romanzo (il romanzesco, ma anche l’unità dell’esperienza vissuta) muore, e ne esce una narrazione aneddotica, a malapena rappresa attorno alla tesi di fondo: l’inettitudine ufficiale dell’esercito patrio, in un caso, l’inettitudine istituzionale e del variegato antifascismo nel secondo.
Proprio questo tipo di narrazione mi interessa: l’aneddotica deve operare necessariamente in base a selezione e un montaggio: quel che leggiamo è il sunto di un’esperienza traumatica, montato poi sulla base di un’intenzione d’autore – questi testi sono gesti politici, in particolare il secondo, scritto proprio per la diffusione dell’antifascismo all’estero. I vari episodi esistenziali – ritagli di un testo il cui contesto rende valicate di fatto le frontiere tra pubblico e privato: mirabile esempio di come l'aver qualche cosa da dire renda superflui sia i giochini strutturalistici sia le speleologiche digressioni più o meno psicanalitiche – sono ritagliati e montati secondo una tesi di fondo da dimostrare; superfluo qui discutere tale tesi. Non ha molto senso ora stabilire ragioni e torti. Quel che più mi sembra interessante è la possibilità di gustare il dibattito di allora, con un effetto studiatissimo di “anti-fiction”: fosse questa la ricetta buona per dare una smossa ad una narrativa buona solo per gli inserti culturali, per gli impegnati da salotto.
Io mi rifiuto di continuare ad avere a che fare con persone che sono in grado di discutere di feriti in battaglia, torture, morti ammazzati, mentre degustano vermentini e paglia e fieno. Aprire gli occhi sui fatti rende ognuno colpevole: ogni guerra è una guerra civile, scrisse Pavese, prima che il suo suicidio venisse a chiudere l'ambiguità tra impegno ed estetismo classicheggiante.
E la guerra che prima o poi verrà sarà veramente di terra e sangue, polvere da sparo e tattiche, e tecniche, infine.
Non è un caso che il caso letterario degli ultimi anni sia stato “Gomorra”, che vale, nella mia ipotetica genealogia, come più recente caso: la parola è già un gesto di battaglia, se esiste una società che di quella parola sa fare realmente una questione. Se questa società non esiste più, restano soltanto i rumori delle ossa che si rompono tra i ragazzi di Seattle e Genova. Se questa società non esiste più, il parlamentarismo diventa vulnerabile, e vulnerato probabilmente in questi ultimi anni più volte, perché è svuotato ogni senso al luogo in cui si parla. Se questa società non esiste più non resterà che l'odore: odore dell'asfalto quando ci si china in terra per non vedere il prossimo omicidio.

venerdì 28 gennaio 2011

Il conte di Montecristo, Alexandre Dumas

Per il riassunto e gli approfondimenti, rimando inevitabilmente qui





Il conte di Montecristo è romanzo ottocentesco: la mia sensazione è che fosse a questo tipo di romanzi a cui ci si riferiva quando, nel turbine dell’avanguardia, si diceva: non è possibile scrivere romanzi in cui si usino frasi come “la marchesa uscì alle cinque”. Romanzo d’avventura e d’intrattenimento ma prima di tutto romanzo commerciale, il Conte riassume in sé molte caratteristiche proprie di quel XIX secolo che è considerabile come momento di trionfo storico della borghesia.
In primo luogo il denaro: se la borghesia è – riprendiamo in mano Marx, ancora una volta, basterà il manifesto! – la classe sociale il cui successo passa per la dissoluzione dei legami personali, sacrali, medioevali, questo successo si misura in fondo sull’unico metro rimasto e possibile – proprio la borghesia ci lascia poi l’ossessione della misura: da un lato abbiamo il metodo scientifico basato sulla misurabilità dei fenomeni, dall’altra abbiamo quella stessa scienza che si rivolta contro l’uomo (e riprendiamo in mano molte cose di Brecht, ma soprattutto il suo Galileo!) fino a fondarne l’alienazione industriale – insomma, l’esistenza, lungi da fondarsi sopra coordinate mistico-religiose, si riconduce al sonante ticchettio del denaro.
E nel romanzone di Dumas il denaro assurge a ruolo di oggetto magico per eccellenza, nella forma del tesoro dell’abate Faria nascosto proprio sull’isola di Montecristo. L’accumulazione originaria viene mitizzata, nel romanzo, ma anche denunciata con fermezza: tutti gli arricchiti di cui sono piene le pagine che narrano la buona società parigina devono le loro fortune ad un’originaria colpa, un delitto, un tradimento: e allora il magico e favoloso tesoro di Edmond Dantes, ovvero del Conte di Montecristo, è precisamente un oggetto favoloso: egli è il buono, nel romanzo, l’eroe della fiaba a cui gli oggetti magici, magicamente appunto, occhieggiano. Ma egli nel romanzo è il buono, forse, precisamente nella misura in cui per questo eroe tenebroso e tormentato il denaro non è altro che un mezzo, pratico o magico indifferentemente, per ottenere la sola cosa a cui tenga veramente, che, è proprio questo che lo divide dal mondo borghese con cui si scontra, non è una cosa: la vendetta.
A questo punto voglio divagare, per non trasformare queste sensazioni di lettura in un saggio storico-sociologico-letterario-umoristico-fastidioso: procedo con assaggi progressivi, sull’onda della memoria. Queste prime righe bastino a suggerire a chi volesse che un’eventuale ricognizione della letteratura borghese e un’ulteriore (novissima?) riflessione sulla mercificazione dell’arte, sulla sua riproducibilità tecnica, sulle conseguenze che questa ha avuto per quella che ancora oggi consideriamo, forse mitologicamente, arte seria, se non può trascurare Baudelaire forse dovrebbe riconsiderarlo anche sullo sfondo di un sistema della produzione letteraria che ha partorito Dumas.
Onda della memoria dicevo: in effetti si sente il vuoto. Una volta chiuso il libro si sente il vuoto. Non è un libretto: nella mia edizione Rizzoli sono circa 950 pagine, conseguentemente il tempo di lettura è anche fisicamente condizionato in una postura necessaria: io ho scelto, sdraiato su un fianco, libro appoggiato al letto: fianco destro pagine pari, sinistro per le dispari. Almeno ho evitato le piaghe di decubito. Ma è la folla folle di personaggi che manca: perché nel Conte, che resta un romanzo al di qua del disincanto della modernità, incredibilmente le considerevoli distanze del Mediterraneo, Roma, Parigi, Marsiglia, vengono annullate nel sogno di una buona società che, crema del mondo, come tale si riconosce ovunque nel segno di una fratellanza del privilegio: non si spiega altrimenti l’intrigante ricerca del successo mondano del Conte, che altro non è poi – il lettore gode in questo romanzo nel saperne sempre di più dei suoi personaggi! – che il presupposto per la vendetta. E allora si resta storditi da questo continuo scomparire e ricomparire di personaggi, dallo scoprire collegamenti impossibili tra minuscoli fatti riferiti di passaggio e sconvolgenti rivelazioni, e infine, con gusto popolaresco, improbabili agnizioni (mai comiche, per altro), intrecci al di là di ogni logica, in fondo, ma a cui forse siamo sempre più abituati da quel gusto discutibile delle telenovele e fiction televisive.
Certo, i dialoghi sono la quintessenza del commerciale, qui: Dumas, come si sa, scriveva un tanto al rigo, quindi aveva ogni interesse ad allungare di riga in riga i dialoghi, borghesemente aumentando la rendita dei tempi di produzione. E ovviamente la psicologia, che peraltro non esisteva ancora, e lo studio del carattere – essenziale ad esempio nella Signora Bovary – sono schematici, talvolta grotteschi specie nei personaggi più umili, rozzi e fin’anche volgari. Ma proprio la Signora Bovary ci mostra che lo stile, raffinato quanto si vuole, ai limiti dell’ossessione per Flaubert, non può nascondere il fatto che il soggetto di un’arte borghese resta limitato inesorabilmente alla sfera del volgare: volgare esistenziale, direi, se non fosse che la parola volgare rammenta fin troppo l’umiltà popolaresca che ormai è perduta (pasolinianamente).
Eppure il romanzo piace: acchiappa, direi. Trascina, come un fiume in piena.
E mi piace pensare che questo senso di essere trascinati da un fiume inarrestabile mi restituisca almeno in parte la fiducia cieca di un’epoca che, allenandosi per l’epoca bella di inizio novecento, dovette poi svegliarsi nell’incubo tutto industriale – e spietatamente borghese – delle guerre mondiali e dei traumi del secolo breve: fiducia cieca in cui inspiegabilmente sembriamo tuttavia ancora dibatterci ogni volta che, ad esempio, ecologicamente cerchiamo scampo in future invenzioni e scoperte, in ascese marziane made in NASA, etc etc, chiudendo gli occhi di fronte al fatto che ogni possibile sopravvivenza ricade essenzialmente nella critica del nostro modo di vivere, cioè di condurre l’esistenza ma anche di sognarla, possibilmente da svegli.
E quindi, in questa delirante recensione, ritrovo un po’ del delirio di tematiche che si aggirano nel romanzo, dove c’è veramente di tutto: amori infelici, vendette lentamente elaborate e portate a compimento con gelida crudeltà, morti meschine, viaggi avventurosi, avventure di mare e di salotto.
Due ultime annotazioni mi salgono alle dita: romanzo borghese, ho detto: romanzo in cui assistiamo alla morte di Dio, se veramente poteva essere commerciale e popolare una storia in cui il protagonista, al di là di qualche battuta consolatoria, si sostituisce lucidamente a Dio: non consoli il finale del romanzo, nel quale la disperata vendetta del Conte ammette un lieto fine sotto forma di migrazione con la bella principessa turca: quel che il romanzo dice, in fondo, è semplicemente: se hai un capitale sufficiente, anche i beni immateriali saranno in tuo possesso.
Ovvero: i soldi non fanno la vendetta/felicità, ma di certo aiutano.
E, ultima postilla, mi piace ripensare al giorno dell’arresto di Dantes: il giorno del suo fidanzamento viene precipitato nelle segrete del castello di IF per aver preso parte ad un intrigo napoleonico di cui egli, da povero marinaio qual era, nulla poteva sapere né capire.
Vorrei poter parlare della fragilità di ogni felicità umana, ma oggi mi viene solo da pensare che soltanto i poveri debbono temere la giustizia, non solo divina, ma anche quella umana officiata nei limiti dello stato borghese quale lo conosciamo. Gli altri, se hanno capitali sufficienti, possono tranquillamente sollevare obiezioni costituzionali, procurarsi leggi personalizzate, rifiutarsi semplicemente di comparire davanti ai giudici, che ritornano ad essere con capriola mistica, esseri umani capaci di errare per volgari passioni politiche (sbagliate).
Ancora una volta quindi il Conte ci dice: badate, chi ha denaro in questo mondo è già al di là del bene e del male. E per quanto si circondi di ogni lusso, e di una bella principessa, ha perduto forse il senso di una felicità umanamente possibile.
E adesso: cena e grappa.