venerdì 28 gennaio 2011

Il conte di Montecristo, Alexandre Dumas

Per il riassunto e gli approfondimenti, rimando inevitabilmente qui





Il conte di Montecristo è romanzo ottocentesco: la mia sensazione è che fosse a questo tipo di romanzi a cui ci si riferiva quando, nel turbine dell’avanguardia, si diceva: non è possibile scrivere romanzi in cui si usino frasi come “la marchesa uscì alle cinque”. Romanzo d’avventura e d’intrattenimento ma prima di tutto romanzo commerciale, il Conte riassume in sé molte caratteristiche proprie di quel XIX secolo che è considerabile come momento di trionfo storico della borghesia.
In primo luogo il denaro: se la borghesia è – riprendiamo in mano Marx, ancora una volta, basterà il manifesto! – la classe sociale il cui successo passa per la dissoluzione dei legami personali, sacrali, medioevali, questo successo si misura in fondo sull’unico metro rimasto e possibile – proprio la borghesia ci lascia poi l’ossessione della misura: da un lato abbiamo il metodo scientifico basato sulla misurabilità dei fenomeni, dall’altra abbiamo quella stessa scienza che si rivolta contro l’uomo (e riprendiamo in mano molte cose di Brecht, ma soprattutto il suo Galileo!) fino a fondarne l’alienazione industriale – insomma, l’esistenza, lungi da fondarsi sopra coordinate mistico-religiose, si riconduce al sonante ticchettio del denaro.
E nel romanzone di Dumas il denaro assurge a ruolo di oggetto magico per eccellenza, nella forma del tesoro dell’abate Faria nascosto proprio sull’isola di Montecristo. L’accumulazione originaria viene mitizzata, nel romanzo, ma anche denunciata con fermezza: tutti gli arricchiti di cui sono piene le pagine che narrano la buona società parigina devono le loro fortune ad un’originaria colpa, un delitto, un tradimento: e allora il magico e favoloso tesoro di Edmond Dantes, ovvero del Conte di Montecristo, è precisamente un oggetto favoloso: egli è il buono, nel romanzo, l’eroe della fiaba a cui gli oggetti magici, magicamente appunto, occhieggiano. Ma egli nel romanzo è il buono, forse, precisamente nella misura in cui per questo eroe tenebroso e tormentato il denaro non è altro che un mezzo, pratico o magico indifferentemente, per ottenere la sola cosa a cui tenga veramente, che, è proprio questo che lo divide dal mondo borghese con cui si scontra, non è una cosa: la vendetta.
A questo punto voglio divagare, per non trasformare queste sensazioni di lettura in un saggio storico-sociologico-letterario-umoristico-fastidioso: procedo con assaggi progressivi, sull’onda della memoria. Queste prime righe bastino a suggerire a chi volesse che un’eventuale ricognizione della letteratura borghese e un’ulteriore (novissima?) riflessione sulla mercificazione dell’arte, sulla sua riproducibilità tecnica, sulle conseguenze che questa ha avuto per quella che ancora oggi consideriamo, forse mitologicamente, arte seria, se non può trascurare Baudelaire forse dovrebbe riconsiderarlo anche sullo sfondo di un sistema della produzione letteraria che ha partorito Dumas.
Onda della memoria dicevo: in effetti si sente il vuoto. Una volta chiuso il libro si sente il vuoto. Non è un libretto: nella mia edizione Rizzoli sono circa 950 pagine, conseguentemente il tempo di lettura è anche fisicamente condizionato in una postura necessaria: io ho scelto, sdraiato su un fianco, libro appoggiato al letto: fianco destro pagine pari, sinistro per le dispari. Almeno ho evitato le piaghe di decubito. Ma è la folla folle di personaggi che manca: perché nel Conte, che resta un romanzo al di qua del disincanto della modernità, incredibilmente le considerevoli distanze del Mediterraneo, Roma, Parigi, Marsiglia, vengono annullate nel sogno di una buona società che, crema del mondo, come tale si riconosce ovunque nel segno di una fratellanza del privilegio: non si spiega altrimenti l’intrigante ricerca del successo mondano del Conte, che altro non è poi – il lettore gode in questo romanzo nel saperne sempre di più dei suoi personaggi! – che il presupposto per la vendetta. E allora si resta storditi da questo continuo scomparire e ricomparire di personaggi, dallo scoprire collegamenti impossibili tra minuscoli fatti riferiti di passaggio e sconvolgenti rivelazioni, e infine, con gusto popolaresco, improbabili agnizioni (mai comiche, per altro), intrecci al di là di ogni logica, in fondo, ma a cui forse siamo sempre più abituati da quel gusto discutibile delle telenovele e fiction televisive.
Certo, i dialoghi sono la quintessenza del commerciale, qui: Dumas, come si sa, scriveva un tanto al rigo, quindi aveva ogni interesse ad allungare di riga in riga i dialoghi, borghesemente aumentando la rendita dei tempi di produzione. E ovviamente la psicologia, che peraltro non esisteva ancora, e lo studio del carattere – essenziale ad esempio nella Signora Bovary – sono schematici, talvolta grotteschi specie nei personaggi più umili, rozzi e fin’anche volgari. Ma proprio la Signora Bovary ci mostra che lo stile, raffinato quanto si vuole, ai limiti dell’ossessione per Flaubert, non può nascondere il fatto che il soggetto di un’arte borghese resta limitato inesorabilmente alla sfera del volgare: volgare esistenziale, direi, se non fosse che la parola volgare rammenta fin troppo l’umiltà popolaresca che ormai è perduta (pasolinianamente).
Eppure il romanzo piace: acchiappa, direi. Trascina, come un fiume in piena.
E mi piace pensare che questo senso di essere trascinati da un fiume inarrestabile mi restituisca almeno in parte la fiducia cieca di un’epoca che, allenandosi per l’epoca bella di inizio novecento, dovette poi svegliarsi nell’incubo tutto industriale – e spietatamente borghese – delle guerre mondiali e dei traumi del secolo breve: fiducia cieca in cui inspiegabilmente sembriamo tuttavia ancora dibatterci ogni volta che, ad esempio, ecologicamente cerchiamo scampo in future invenzioni e scoperte, in ascese marziane made in NASA, etc etc, chiudendo gli occhi di fronte al fatto che ogni possibile sopravvivenza ricade essenzialmente nella critica del nostro modo di vivere, cioè di condurre l’esistenza ma anche di sognarla, possibilmente da svegli.
E quindi, in questa delirante recensione, ritrovo un po’ del delirio di tematiche che si aggirano nel romanzo, dove c’è veramente di tutto: amori infelici, vendette lentamente elaborate e portate a compimento con gelida crudeltà, morti meschine, viaggi avventurosi, avventure di mare e di salotto.
Due ultime annotazioni mi salgono alle dita: romanzo borghese, ho detto: romanzo in cui assistiamo alla morte di Dio, se veramente poteva essere commerciale e popolare una storia in cui il protagonista, al di là di qualche battuta consolatoria, si sostituisce lucidamente a Dio: non consoli il finale del romanzo, nel quale la disperata vendetta del Conte ammette un lieto fine sotto forma di migrazione con la bella principessa turca: quel che il romanzo dice, in fondo, è semplicemente: se hai un capitale sufficiente, anche i beni immateriali saranno in tuo possesso.
Ovvero: i soldi non fanno la vendetta/felicità, ma di certo aiutano.
E, ultima postilla, mi piace ripensare al giorno dell’arresto di Dantes: il giorno del suo fidanzamento viene precipitato nelle segrete del castello di IF per aver preso parte ad un intrigo napoleonico di cui egli, da povero marinaio qual era, nulla poteva sapere né capire.
Vorrei poter parlare della fragilità di ogni felicità umana, ma oggi mi viene solo da pensare che soltanto i poveri debbono temere la giustizia, non solo divina, ma anche quella umana officiata nei limiti dello stato borghese quale lo conosciamo. Gli altri, se hanno capitali sufficienti, possono tranquillamente sollevare obiezioni costituzionali, procurarsi leggi personalizzate, rifiutarsi semplicemente di comparire davanti ai giudici, che ritornano ad essere con capriola mistica, esseri umani capaci di errare per volgari passioni politiche (sbagliate).
Ancora una volta quindi il Conte ci dice: badate, chi ha denaro in questo mondo è già al di là del bene e del male. E per quanto si circondi di ogni lusso, e di una bella principessa, ha perduto forse il senso di una felicità umanamente possibile.
E adesso: cena e grappa.