lunedì 31 maggio 2010

Bob Kaufman, "Manifesto abomunista" 1959

Bob Kaufman "Manifesto abomunista"

Se non ricordo male ne esisteva una traduzione ad opera della Pivano su una raccolta di poesia beat di cui non ricordo l'editore. Non riesco neppure a trovare il libro causa frequenti impossibili traslochi, quindi non so dare riferimenti più precisi. La seguente traduzione è mia, e ovviamente è più che aperta a consigli e precisazioni da parte di persone più esperte di me. Mi dispiace soltanto che di questo interessante poeta non si trovi pressoché nulla in italiano, neppure sulla rete, eccezion fatta per il "Blues dell'acqua pesante" che potrete trovare con una semplice ricerca su Google.
Qui il link della pagina di wikipedia su Bob Kaufman, come vedrete tremendamente spoglia.


Gli Abomunisti non credono in niente se non nelle loro mani o gambe o cose simili.

Gli Abomunisti hanno spaccato l'antipoesia per ragioni poetiche (e frink?).

Gli Abomunisti non guardano opere dipinte da presidenti e primi ministri disoccupati.

In tempi di pericolo nazionale, gli Abomunisti,come veri americani, sono pronti a bere a morte per il loro paese.

Gli Abomunisti non sentono dolore, non importa quanto fa male.

Gli Abomunisti non usano la parola "piazza" se non quando parlano alle piazze.

Gli Abomunisti leggono i giornali solo per determinare la loro abomunibilità (?).

Gli Abomunisti non portano mai più di 50 dollari di debiti addosso.

Gli Abomunisti credono che la soluzione ai problemi di intolleranza religiosa sia avere un candidato presidente cattolico e un candidato papa protestante.

Gli Abomunisti non scrivono per denaro: scrivono loro stessi il denaro.

Gli Abomunisti credono solo in quello che sognano dopo che si è avverato.

I bambini abomunisti devono essere allevato abomunistamente (?).

I poeti abomunisti, convinti che la nuova corrente lettararia "scrivere con i piedi" abbia liberato l'artista da restrizioni fuori moda come, ad esempio, la capacità di leggere e scrivere o il desiderio di comunicare, devono essere pronti a leggere il loro lavoro nelle scuole per dentisti, nelle scuole per imbalsamatori, case per mamme non sposate, case per mamme sposate, manicomi, mense, asili e le prigioni della contea.
Gli Abomunisti non compromettono mai la loro filosofia di rifiuto.

Gli Abomunisti non credono in niente, tranne nei pupazzi di neve.

domenica 30 maggio 2010

Pipistrelli dei bar (...continua e segue...)



“Re”

Il reame del reale sembra 
Sempre stupido per gli occhi
Che sono sempre persi dietro l’ombra
Dei sogni che si fanno ormai vecchi.
La tentazione è l’urlo di membra
Impacciato in casi senza sbocchi
Esaltato nei prati resto imbra
nato. Alle rondini hanno bruciato i becchi.



“Ho cambiato casa”

Perché splendono le stelle?
E perché quando siamo malinconici
Lo sguardo si piega al cielo?
Perché accade che l’uomo abbia bisogno di un’altra persona?
E perché in questo desiderio
Si annida la stanchezza come la serpe
Che promette di portarci a casa?
E cosa si può insegnare, 
se non quello che uno impara da sé?
Si può essere un serbatoio a cui si attinge? 
L’odore di muffa sui limoni
In borgo chiuso, ma com’è possibile essere così
Infelici mi domando scrivendo all’infinito, ma ecco
Davanti all’infinità della vanità del tutto le parole
Piccole frane di ghiaia che inquinano
Le chiare fresche dolci acque
Spariranno
In un nuovo anno.



“Paesi in bianco”

Ma cosa sono queste stelle matte, non c'è allegria
ma con questi pochi pezzi devi inventare tutto
la gioia, la bara, il barbiturico servito 
al bar di Barbarano, barcolla l'amico servito
nei giochi di carte in questa notte che le 
stelle, nonostante non stia trascurando 
le mie voglie, nonostante spumi la birra 
a riempire le valli, nonostante dormendo
gli amici sognano questa piazza riempita
della voglia di non dormire più: l'immersione
è nella pigrizia del lavoro, il desiderio:
salgo sul palco stanco, mimo un re longobardo
quando l'ebbrezza finalmente mi trascina: e 
il lago d'un colpo tracima. L'acqua che sale
nei cervelli, pensiamo pure ai cervi,
agli istrici simpatici, alle scarpe da tennis,
ai giri in bici, al buio dipinto di blu
pensare a me ora che tu
hai questa voglia di dormire questa voglia
che nonostante tutto nella sera della festa
non è che tolga, mia amica, 
la voglia di meravigliare le stelle che da 
millenni brillano nonostante noi 
e le esplosioni di verde sono la ricompensa
di chi stanotte perde il sonno e il tempo
uccide i ragni, patisce le zanzare e amare 
sonnolenze: i bambini non dovrebbero
mai dormire: altrimenti che scampo trovare
nella dispensa
del mio vecchio corpo a vapore? 

giovedì 27 maggio 2010

Equilibristi #7

7. 


Du hattest keine.

Ich hatte eine:
Ich liebte.
(B. Brecht)



I giorni scorrono apparentemente uguali, anche a guardarli da qui. Il disordine del mondo sembra una struttura ricorsiva: ma chi prova a disegnarla impazzisce. Perché l'unica cosa che resta costante è il continuo cambiamento. 
Tutto scorre, ricordate? Ed esistono molte più cose sotto il cielo e sopra la terra, per non parlare di quel che potrebbe esserci sotto la terra e sopra il nostro piccolo azzurro cielo, di quante ognuno di noi possa veramente scoprire. E tra tutte queste cose oscilliamo, sempre. Stiamo fermi solo quando siamo avvolti da contrastanti forze. Ed è rassicurante, in questa infinita confusione, pensare di imparare le cose, di saperle riconoscere, di annoiarsi, persino. In realtà le rincorriamo ogni mattina, nel solito bar, nelle solite parole, nel giornale, nel caffè, nel bacio, nello sguardo furtivo lanciato al cielo. Ma in realtà accadono cose diverse ovunque attorno a noi, e accadono spesso. 
Voi forse non volete avere tempo per accorgervene. 
Io sono qui apposta.
Sono queste le cose che sto rubando, non le vostre anime da quattro soldi. 
Oggi succede che Ludovica, la ragazza di corsa, esce in fretta dal bar, mentre Leonardo, il ragazzo che comincia mille cose senza sapere dove andare a finire, entra. 
Quante persone entrano ed escono dal bar ogni giorno?
Ne avete un'idea. 
Ma poche si scontrano come fanno loro ora. Possiamo dire che lei corre troppo per quella campanella che minaccia di suonare, o che lui è sempre troppo con gli occhi per aria e la testa tra le nuvole. Possiamo giustificare questo piccolo inutile incidente in migliaia di modi diversi. Eppure, è successo. 
E dopo che si sono scontrati, si guardano negli occhi. Non è una faccenda poi tanto normale.
- Ciao - dice lei.
- Scusa - dice lui, le raccoglie lo zaino: è leggero, mezzo vuoto. 
Lui resta con le mani in mano. Le mette in tasca. Vorrebbe avere i capelli più lunghi. Sta cercando di controllare ogni muscolo del viso, della schiena. Si sente il rumore di tutto quel lavoro, qui. Cioè, io lo sento, e la scena prosegue. Sono più di duecento i muscoli necessari al sorriso, comunque, pensateci. 
E lei ora sorride.
Entrambi hanno quell'espressione da impreparati in cattedra, ma anche da Natale improvviso, da gelato caduto in terra: terrore e stupore. Timore e tremore.
Lei pensa: com'è che diceva il prof? Ci vuole pazienza con i fiori; e anche che l'amore non è una malattia, pur se è stato sempre descritto con accurata sintomatologia; e che qualunque cosa accada, sono soprattutto gli errori quello che ci tiene vivi. Una donna scappa nella foresta e tutti dietro a perdersi. A perdere la testa, la vita, il senno. Per un seno? Per questo seno appena spuntato? Ma che succede quando è lei che vuole farsi trovare, invece? 
E pensa: i miei piedi sudano, ora, e si fanno troppo leggeri. 
Con te commetterei ogni errore. 
E lui: sto per sbagliare, la palla uscirà, la schiena è sbilanciata, rigida, innaturale, il portiere troppo grande e veloce, e tutto intorno questa folla muta di sguardi, si annuvolano risate, le marmitte di motorini strombazzano scherno, ho un brufolo sulla guancia e lei ha gli occhi del temporale che arriva lento quando invece di studiare guardi fuori dalla finestra.
- Oggi forse pioverà. - dice infine. 
E lei: -e temo che ogni goccia di pioggia possa uccidermi. -
La citazione scolastica non viene raccolta, ma ugualmente le nuvole alte hanno mandato un rumore come di porcellana che si rompe e, anche se attorno tutto ha ripreso a girare sempre più veloce, lei è corsa via rincorrendo la campanella, gli amici hanno annebbiato l'aria di olio bruciacchiato, padri sono usciti e madri entrate, i libri sono stati chiusi, le gomme sputate, le sigarette spente, loro due, Ludovica e Leonardo, sono accesi ora da una miccia in fiamme.
E adesso che invento parole in questa moviola di altri cuori, vorrei spiegarvi cosa c'è sotto la porcellana quando si rompe, ma ora, ma prima, provate ad ascoltare il suono di questa miccia che, in un largo groviglio, brucia.

martedì 25 maggio 2010

lezione #4

Lezione n° 4

Salvatore ha percorso tutto un viale, attorno a cui si è sviluppato negli anni un quartiere. Dalla disposizione dei palazzi, è evidente che, come quando dopo una lunga giornata di pioggia crescono al primo sole molti funghi, qui i palazzi sono fioriti dietro intenti di cui nessuno si ricorda più. Eppure le persone ci vivono ancora. Salvatore è stato alquanto preoccupato, e anche un po’ di più. Inoltre nell’angolo di cielo che si mostrava tra i palazzi si erano addensate scure nuvole temporalesche. Salvatore non si è perso d’animo: va’ dove vuoi, gli era stato detto, e arriverai. 
Aveva cercato di mantenersi fedele a questo consiglio.
E ora, mentre stava cominciando a pensare che quello che voleva veramente era mangiare e non andare da qualche parte, incontrò una signorina con un passeggino. Era incastrata sulle strisce pedonali: gli era impossibile passare perché sul suo passaggio dormivano macchine addormentate. Il tram scampanava immobile: era pieno di persone che, mentre Salvatore si avvicinava, hanno cominciato a scendere.

S._ Signorina, posso aiutarla? Sono Salvatore, sono uno studente e amo le Dolomiti. 
Signorina_ E cosa vuole fare? Non vede che qui non si riesce neanche più ad andare avanti? Comunque io sono Barbara, e sono una giovane mamma.
S._ Che bella cosa! 
B._ Questo lo dice lei. Non riesco a muovermi da qui. Dietro di me il tram, davanti a me le macchine addormentate. E sopra il diluvio sta per cominciare.
S._ Guardi, qualcuno la sta aiutando. 
B._ Forse mi vogliono violentare!?
S._ Sembrano violente. Sono solo arrabbiate.
B._ Ho paura. Tremo.
S._ Ma cosa faranno?
B._ Si metta qui davanti a me, così mi nasconde. Non è facile andare in giro per una giovane madre.
S._ Non c’è nulla da temere. Vede, cercano di spostare la macchina.
B._ Ma cosa fanno, sono matti?
S._ Ecco, hanno rovesciato la macchina sul marciapiede così può andare avanti. Salga sul marciapiede. Questa brava gente ha risolto il suo problema. 
B._ Hanno risolto il loro problema. Guardi come risalgono veloci sul tram, prima che quello li lasci qui. Non è possibile star fermi, davvero, non qui.
S._ Non è facile accontentarla, davvero. 
B._ Mi aiuti a sollevare il passeggino, non riesco a fare lo scalino del marciapiede.
S._ Volentieri.
B._ Grazie.
S._ Prego, non c’è di che. 
B._ E’ straniero, vero?
S._ Si. 
B._ Da dove vieni?
S._ Guardi, il tram è ripartito. 
B._ Non farà molta strada: alla prima curva ci sarà qualcuno che cadrà, non si sono chiuse completamente le porte, succede quando c’è tutta questa umidità. Quindi la sua testa mozzata si incastrerà tra la ruota e la rotaia e il tram sarà fermo di nuovo. 
S._ Capisco.
B._ Qui non ci può andare avanti, e non si può stare fermi. 
S._ Il suo bambino è un po’ freddo.
B._ Quello non è la mia Mercedes, è la spesa; la porto così per camuffarla. Ho battuto tutta l’estate per pagare l’asilo, per le mia Mercedes voglio solo il meglio. Avrà tutto quello che non ho avuto io, così avrà tanti amici con cui parlare con il cellulare. 
S._ Lei è una persona buona, ma non capisco come ha fatto a battere l’estate. Allora questi che sento sono alcuni di quei buonissimi gelati. Devo comprare qualcosa anch’io. Dove devo andare? 
B._ Nella direzione opposta alla mia, mi sembra ovvio. 
S._ Allora per di là? 
B._ Esattamente, dritto alle mie spalle. Vedi bello, io ne ho le palle piene di farmi scopare da persone tanto tristi che mi riempiono di lacrime; e poi puzzano sempre di cipolla. Qui tutti lavorano per farsi la guerra, e poi si fanno la guerra per lavorare ancora. E alla fine della giostra vengono a piangere tra le mie gambe. La mia Mercedes ha bisogno di un cambiamento. E adesso dove devo andare? Cosa crede che dovrei fare? Le viene facile venire ad aiutare, vero? Tanto a lei cosa le costa? Ma cosa vuole capire lei, glielo dico io: qui non si può fare proprio niente. E poi questo marciapiedi fa schifo, stavo più comoda ferma sulle strisce pedonali. 
S._ Capisco, le serve un nuovo cambio. 
B._ Ora avrei tanta voglia di dare un bacino alla mia Mercedes. 
S._ Signorina Barbara, può ripetere: io non ho capito.
B._ Qui non si va né avanti né indietro: si fa troppa fatica a restare fermi. 

Una volta detto questo, la signorina, gentile e onesta, si chinò sul passeggino e iniziò a succhiare con una cannuccia da una bottiglia, tenuta in fresco dai surgelati. In pochi secondi gli occhi accelerarono fuori dalle orbite, e lei cadde con la testa dentro la busta di plastica che si riempiva di rosso. Intanto che lungo le gambe cominciava a calare un liquido simile a una zuppa di cipolle, tuttavia sfrigolava sul marciapiede lavando via le gomme da masticare pietrificate, i suoi occhi fissavano il cielo scuro, appoggiati su una confezione di verdure miste congelate.
Dei due, uno era finito sulla O di “Facili e Buonissime”: così era scritto sulla confezione.

sabato 22 maggio 2010

In morte di Edoardo Sanguineti

La morte di Sanguineti mi ha colto di sorpresa: alla sprovvista, direi. Come a volte fanno i nonni, che scompaiono senza avvertire. Una morte veloce, con un sospetto di malasanità: bene, mi dico, morendo si può ancora denunciare qualcosa. Perché cos'è stata la poesia di Sanguineti se non questo? 
Denuncia. Una denuncia che non conosce colpevoli, una denuncia che non minaccia di "fare i nomi" come le invettive pasoliniane, una denuncia che denuncia soprattutto se stessa, perché vuol essere soltanto il richiamo alla critica: alla critica della vita e ad una vita della critica. I colpevoli ci sono, basta volersi fare "aspiranti materialisti storici" - come amava definirsi, con affabile lucidità, Edoardo - per scoprirli in una borghesia italiana che "sogna ancora".
Ecco: sogno. Sogno e psicanalisi, invevitabilmente. Psicanalisi non come cura quanto come critica, come esercizio illuministico della ragione, tentativo di strappare un sentiero alle giungle che ci popolano. La denuncia dev'essere un risveglio: tornare sui propri sogni per criticarli, con l'amica dialettica.
Ma se c'è critica, allora, almeno da due secoli, per chi volesse fare poesia, questa critica dev'essere prima di tutto critica della propria poesia e della poesia in quanto tale. A meno di non volersi nascondere dietro un dito, bisogna ammettere che la poesia gode di un'inutilità malata, oggi come oggi, a meno di non trasformarsi direttamente in un prodotto culturale che gode il prestigio delle nicchie di mercato: costa tanto e vende poco.
Sto parlando proprio male, vediamo di ricominciare: per chi volesse, superati i diciottanni, scrivere poesie, è necessario pensare che cosa mai sia quella poesia. Personalmente ho scelto: una poesia quotidiana. E ho scelto proprio leggendo, in tempi di università, Sanguineti (e altri).
Incredibile quante cose si nascondano dietro questa definizione. In primo luogo significa criticare i propri giorni, giorno per giorno, o quasi: perché prendere "il piccolo fatto vero, possibilmente di giornata" significa strappare al continuum della vita un momento e straniarlo, straniarlo dal costruito disegno significante in cui e da cui siamo vissuti: perché davvero di una vita, restano in fondo pochi aneddoti, qualche battuta, alcuni momenti. La poesia allora diventa una specie di diario in pubblico, un gioco di autoanalisi, un contropelo esibito, in cui l'io deve avere il coraggio di presentarsi anche in modo spiacevole o banale. 
Fare questo significa anche che questa critica deve passare attraverso una critica del linguaggio, se è vero che nel linguaggio riposa la forza del pensiero dominante: pensiamo solo al valore che ha assunto la parola "rumeno" tra i nostri giovani, trasformandosi nell'odierno surrogato del "negro" simbolico del razzista medio; critica del linguaggio che deve prima di tutto colpire la poesia stessa, il "poetese" contro cui, per sessantanni Sanguineti si è scagliato: significa insomma spezzare il nodo magico a cui ancora siamo vincolati della spettacolarizzazione di una vita tesa all'arte (è il meccanismo base del sistema televisivo) perseguendo piuttosto un'arte vitalizzata all'interno della vita. Diventa allora centrale l'amore, amore fedele o infedele per la moglie, che attraversa l'intera opera di Edoardo: se da giovani si può scrivere che il matrimonio diventa una "cellula di resistenza", vivendo l'amore si declina in tutto un paradigma di situazioni, distanze, tradimenti, esplicitamente banali, quotidiani, matrimoniali. 
E' forse l'amore uno dei campi in cui più è necessario smontare le sovrastrutture imperanti: smontare il linguaggio riducendolo a parole d'amore che siano concrete, smontare l'amore nell'eros, nel corpo, nel piacere. Rimettere l'eros al centro dei nostri scambi simbolici, spezzando l'incanto dello spettacolo che con l'eros gioca perpetuamente, ma in modo mediato, bisbigliando all'inconscio il richiamo continuo di nuovi inesauribili (perché non soddisfabili) desideri. 
La sto facendo lunga: non è facile racchiudere tutto in poche righe.
Per tirare le somme, chiariamo una volta per tutte che l'operazione di Sanguineti è un'operazione d'avanguardia, intesa proprio nella sua posizione dialettica rispetto alla forma spettacolo: da una parte abbiamo il montaggio di frammenti alla ricerca (con la promessa) della costruzione di un senso unitario, totalitario: la mia vita è stata questa, ed eccone il riassunto con colonna sonora. Dall'altra abbiamo invece i frammenti, straniati e straniti, non brandelli di rivelazione ma piccoli strappi in una tela che si vuole perfetta ma che possiamo sentire, tutti, giorno dopo giorno, insoddisfacente.
E' poesia questa borghesemente limitata, ovvio: per questo serve l'avanguardia. L'estetica è politica, come del resto ogni altra manifestazione culturale: politica nel senso di storica, mutevole, e per questo determinata da continua dialettica. Politica nel senso che la critica deve rivolgersi all'addestramento culturale a cui siamo sottoposti, addestramento che passa per la nostra vita materialmente vissuta, ed ecco l'esigenza di farsi "aspiranti materialisti storici", e per il nostro linguaggio e immaginario, ed ecco la necessità di farsi poeti.
Un giorno la poesia sarà scritta da tutti: non era questo il sogno dell'avanguardia? 
Questo vuol dire che dovrà cambiare anche il nostro concetto di poesia. 
Internet ci sta aiutando molto, se riuscissimo a sottrarci alle esigenze pubblicitarie del fascino. 
Morire, chiudendo per sempre un discorso, sembra, ottocentescamente, porre il punto da cui costruire (paesaggisti e urbanisti servirebbero) l'autenticità di una vita vissuta: non è questo che vorrei. Morire non porta la conclusione tanto cercata, spiacente.
Se conclusione ci sarà, sarà gioia e rivoluzione.
Due cose appena: "non ho creduto in niente" e "me la sono goduta, io, la mia vita".

E ora, resta il lavoro da fare.

venerdì 21 maggio 2010

Equilibristi #6

6.



“Ho sbagliato per sbagliare non perche' lo dite voi 
e non mi pento proprio, sono in riserva ormai. 
Io ci credo in quel che voglio e forse voglio farmi male 
ma non mi riconosco in quello che conviene. 
Mi piace scivolarvi fuori da ogni calcolo. 
Per riportarmi in riga servira' un miracolo. 
Complici e simili da credere alle favole, 
coi nostri sogni in gola, questa notte sembra fatta per noi... 
che non ci guarderemo indietro mai.”
(Negrita)



Si sente fin qui: sta dietro le parole di chi parlotta al bar. Nessuno ascolta, ma si sente. Il corridoio della scuola si svuota quando gli studenti entrano in classe e lentamente tutto si fa silenzio; la bidella torna a sedere alla sua scrivania. Gli zaini si aprono, si cercano le penne, i libri, i quaderni. Qualcuno si prepara a proseguire i sogni lasciati poco prima nel cuscino. I professori firmano i registri, annotano gli assenti. Poi incominciano a parlare.
E dal paese delle nebbie in cui si sente perso, il professore comincia a parlare così. Ha tirato via le maschere, o ne ha indossata un'altra. Comunque, nonostante il mondo oggi sia una cosa dalla consistenza incerta, sorride, tira fuori dalla borsa un foglio.
“Vi ho scritto una lettera” dice, e intanto pensa: cerchiamo di sopravvivere a quest'ora! 

"Per quanto mi riguarda non esiste altro lavoro capace di farmi sorridere così. E ovviamente vi auguro di riuscire a trovare questa stessa emozione, un domani. 
Ma volete sapere qual è il segreto? Siete voi. 
Non c'è altro modo per dirlo. 
Vi diranno, ve l'ho detto anch'io, maleducati, sporchi brutti e cattivi, vi diranno "mi deludi", vi diranno "non ce la farai mai". Sono stato anch’io crudele ed isterico, e quante volte mi sono lamentato di voi, vi ho detto che fate schifo e altro: spero riusciate a capire che avrei voluto dimostrarvi come i complimenti costano poco, e ogni volta è solo dentro di voi che si può decidere, che tocca sempre e solo a voi quella difficile missione che è giudicarsi (è per questo poi che vi ho sempre detto che i miei voti non sono poi così importati come credete voi!). 
Perché in fondo, magari proprio in fondo in fondo, siete voi che insegnate a me l'arte del sorriso. (Tocca a voi! E spero che abbiate capito quanta intelligenza ci vuole per riuscire a sorridere sul serio!) E poi è inevitabile che i vecchi si lamentino dei giovani: non ci badate, ma piuttosto imparate a fare tesoro dei consigli di chi, anche se a voi può sembrare assurdo, ne ha già combinate, ha già combinato quasi tutti i guai che voi ancora non siete neppure capace di immaginare, ha già vissuto anche momenti tanto belli che voi non potete neppure, ancora, sognare, ha già sbagliato ed ha imparato a ritornare sui propri errori, non per cancellarli - purtroppo è impossibile - ma per andare avanti e correggerli, per migliorare sempre. 
Sbagliando s'impara, no? 
Non smettete mai di imparare.  
E ricordate che non esistono cose per cui valga la pena rinunciare al sorriso. Ascoltate gli altri, ma state attenti, ricordate il piccolo principe? "L'essenziale è invisibile agli occhi, non si vede bene che col cuore!" Usate il cuore, sempre, per capire in che situazione vi trovate, per capire dove si nasconde la strada migliore. Usate il cuore per scoprire che non esiste cosa migliore dell'incontro con un'altra persona, del bere anche solo un sorso d'acqua insieme ad un amico. Vivrete certo mille e mille avventure, nei prossimi anni: dovrete affrontate mille e mille scoperte, e alla fine scoprirete che non c'è nulla che possa essere paragonato al piacere che dà sentire, vedere, conoscere davvero un'altra persona. E lo studio non è altro che questo: vedere e sentire il mondo che ci circonda, questa grande cosa che gira e gira e molto spesso sembra poter fare tranquillamente a meno di noi; le cose dei giornali non cambiano di certo grazie a noi, no? Eppure, vedete, tutto lo studio non è altro che un dire, e gridarlo, anche, quando servirà, che il mondo siamo noi, la storia siamo noi, che le responsabilità degli errori sono nostre, ma anche che abbiamo la possibilità di fare del mondo un posto magnifico.
Ricordate i discorsi sui nonni? A me piace immaginare come mio nonno potesse immaginare la mia vita d'oggi. E' morto vent'anni fa! 
Chissà, avrà mai pensato ad internet ed ai cellulari? Avrà mai pensato a queste ultime guerre? Avrà pensato all'inquinamento? Non lo so. E a me, come mi avrà immaginato, quando mi guardava bambino? Quel che voglio dire, è che mi piacerebbe essere all'altezza dei sogni di tutti quelli che ci hanno preceduti. E' questa la storia.
E i vostri genitori cos'hanno sognato di voi? E voi, cosa state sognando? 
Siamo persi dentro un mondo in cui troppe persone cercano di insegnarci chi siamo: alcuni lo fanno vendendoci i vestiti, altri una certa musica, alcuni persino vendendoci certi libri, la scuola lo fa in un altro modo ancora, gli amici in un altro, l'amore, quando sarà, lo farà anche lui, ma siete solo voi che potete e dovete decidere: chi volete essere?
Io sono stato così fortunato da essere, oggi, quel che avrei voluto: ancora capace di ridere con voi, ancora capace di giocare. E nonostante questo, lo sapete bene, rimane evidente tutto quello che ancora c’è da fare! Ovviamente è per questo che mi trovate sempre incontentabile: non dimentichiamo che questo significa soprattutto che da domani bisogna ricominciare a lavorare per non perdere questi doni.
Spero che tra le altre cose che avete potuto rubarmi ci sia anche questo: che quando c’è qualcuno che piange, qualcuno che ride, qualcuno con un cuore che sembra impazzito ed invece è semplicemente vivo, e quindi pieno di tutti quei problemi che state cominciando ad assaggiare, quello è il momento in cui non potete lasciarlo solo! 
Ripensate a cosa abbiamo fatto, insieme, fin qui.
Avevamo molto lavoro da fare.
Avevamo programmi precisi, tabelle di marcia da seguire, avevamo obiettivi da raggiungere. Obiettivi molto precisi. Sono proprio queste le cose che ti insegnano quando dici che vuoi fare l’insegnante! Forse molto lo abbiamo fatto, ma questo dovrete dirlo soprattutto voi, e per dirlo dovrete aspettare le nuove prove che vi attendono. 
Quello che voglio dire, ora, è che in fondo non abbiamo mai o quasi mai rispettato quelle tabelle di marcia; abbiamo fatto lunghi giri e deviazioni impreviste; abbiamo affrontato problemi nuovi ed imprevisti. Ci siamo incavolati, abbiamo litigato, abbiamo discusso, abbiamo avuto pazienza, abbiamo avuto la tentazione di mollare, e abbiamo riso e abbiamo pianto, e alla fine di tutto, per riassumere, posso dire: siamo stati insieme.
Questo è quello che vorrei aveste capito, da tutta la mia confusione: non esiste piano o programma o obiettivo che valga tanto da rinunciare ad ascoltare col cuore altri cuori. Ovviamente quella del cuore è una metafora piuttosto banale, ma spero vi renda l’idea.
Quel che vorrei sarebbe l’aver avuto molto più tempo da perdere con voi. E quando ripenso a questi mesi mi accorgo che sono passati, nonostante gli strilli e la fatica, come se fossi rimasto, in un lungo pomeriggio d’estate, ad ascoltare il rumore dei fiori che si preparano a sbocciare. Ad ascoltarvi crescere.
E’ appena l’inizio: è una di quelle faccende che durano più o meno tutta la vita. Per fortuna.
E ora un'ultima cosa: non vi nascondete dalla fatica, perché è nella fatica che si nasconde ogni piacere: altrimenti vivrete sempre mangiando cibi senz'appetito, bevendo senza sete, amando senz'amore. E ricordate che esiste il riposo, ma esiste, appunto, solo dopo la fatica. 
E soprattutto non credete a chi vi dice che le fiabe non esistono e che nessuno oggi vive felice e contento: oggi si può vivere felici e contenti, a patto di ricordarsi che lo si fa solo fino a che non inizi la prossima avventura! Ricordate? Tutto inizia con la rottura dell'equilibrio. 
E la vita non è altro che una lunga rincorsa all'equilibrio.
Esistono nani feroci, elfi astuti, giganti rabbiosi, streghe cattive, folletti dispettosi.
Ma esistono anche vecchi amici saggi, giovani coraggiosi, fanciulle e fanciulli meravigliosi, e ogni volta che ridete nascono nuove fate.

Enrico ripiega il foglio come fosse una cosa improvvisamente urgente, evita di guardare la classe e dice: “E adesso prendete i diari e scrivere per domani: rispondere alla lettera del professore. Non penserete mica che solo perché oggi non mi sento molto bene avete la scusa per non combinare niente?”
A quanto pare anche oggi il professore se la caverà. La classe ascolta le sue parole. Quando si allontana dalla grammatica e dalla letteratura quei piccoletti ascoltano più volentieri: questo non vuol dire che gli diano retta. 
A questo mondo ognuno deve per forza sbagliare da solo.
E tutti quelli della razza che sta a guardare, della quale evidentemente faccio parte, imparano questa come prima regola: quando vedi qualcuno che sta per inciampare, non puoi far nulla per impedirgli di inciampare. Al massimo puoi cercare di spostare gli oggetti attorno, limitare i danni, offrire, quando puoi, ed è un evento piuttosto fortunato, qualche tenue misura di sicurezza. 
Ma la vita, come ripete Enrico, il professore, è sempre una rincorsa ad un equilibrio.
E l'equilibrio è sempre faccenda di un momento, in cui le molte forze contrastanti e tra loro in lotta si equivalgono.

sabato 15 maggio 2010

Dieci anni fa, sulla tovaglia, ad un concerto...

L’UOMO DELLA BRUMA


In questa notte di mezza estate la luna muore
l’uomo che vive sulla bruma pigia l’interruttore
e si apre un precipizio di cielo fin sulla sabbia
e la notte degli amanti finisce con rabbia

e la carovana si attornia di carri ripieni
e certi eroi già sanguinano per frecce indiane
e a certe finestre giunge inatteso l’odore di fieni
e l’incenso evapora dai templi tibetani

è un rimescolarsi nell’aria di aromi e odori
è un suono nell’aria come un colore
come una sera blu appena dipinta
che ancora gronda gocce di notte

l’uomo che vive lassù porta un cappello
talvolta sporge la testa e si affaccia
stanotte improvviso gli vola un capello
e ondeggia nell’aria come un profilo, una faccia

e segue il precipizio della luna fin sulla rena
e vede una piccola perla apparire luminosa
è una donna che improvvisa balena
è una donna bella, nuda e silenziosa

il capello scivola lungo lo sguardo dell’uomo blu
la donna salta e vola e adesso nuota nel vetro
e lascia sbigottita la folla che resta laggiù
e in riflesso improvviso si volta all’indietro

lascia la folla farsi piccola sotto di lei
e nuota fino a sfiorare in questa notte che muore
l’uomo e il cappello di velluto trapuntato di stelle.
Io sogno e schiaccio l'interruttore

mentre il crepuscolo si riflette in un capello che vola.

In...

“In-battersi”

In una notte finché l’alba
In salute in gola
In malattia in un mazzo di chiavi
In un marzo in un bene che ami
In un fiore tetro in un vetro
Nero in povertà
In libertà in demenza
In una borsa piena di coriandoli
In una buca piena di semenza, in un’oscura
Tana in un ragno spiaccicato
In un’ombra inzaccherata
In un riflesso in un letto
In un fesso in un malore
Improvviso che quasi morivo
In un quasi che hai detto
In un cuore se ce l’hai dentro
In un corso in un piano
In un carso lontano
In un lontano saluto dal treno
In un bicchiere che bevo
In un dio che non credo
In un albero bruciato
In un’anima abbrustolita
In un armadio bucato in un sogno
Deluso in un bambino caduto
Che piange in lacrime morbide
In un dente fasullo in un fucile
In un bacile di sabbia e oro
In un amore in un perdono.

venerdì 14 maggio 2010

Equilibristi #5



5. 



Lui era il mio Nord, il mio Sud,
 il mio Est ed ovest,
(W. H. Auden)







E se fosse? E se non fosse? 
Pensa così la bambina che è passata qui davanti correndo: è tardi. La campana a scuola sta per suonare. E il bar sta per riempirsi di genitori che hanno il tempo di chiacchierare, una volta concluso il giro tra asilo, elementari, medie. L'ingresso a scuola coincide con un momento di traffico impazzito, mamme frettolose, nervose, che scattano verso la giornate di lavoro: i papà, quando ci sono, sono più rilassati, specie quelli con belle macchine. Il suono della campanella attira la ciurma di studenti lentamente ma inesorabilmente, come lo scarico di un lavandino. Subito dopo le autovetture scivolano via, e il bar cambia atmosfera, tutto è più lento, e i genitori si godono quei minuti in cui tolgono la maschera familiare e si sentono liberi dallo sguardo dei figli. Ma la campanella ha anche il magico potere di riempire l'aria di ansia: i ritardatari si precipitano. Anche se si trattengono dal correre, dentro hanno l'inquietudine che prende al suono del telefono: è il segnale di un appuntamento. E questa bambina  sta correndo per non arrivare tardi, per non sentirsi addosso lo sguardo della bidella e le lamentele del prof. Perché arrivare tardi ad un appuntamento mette una strana inquietudine. 
Da pochi mesi tiene i capelli sciolti, questa bambina. Forse per questo non è più una bambina. E corre, portandosi dietro mucchi e mucchi di voglie, nuove, strane, incomprensibili. Corre perché da poco tempo la scuola è una cosa diversa. Esistono cose nuove. Il suo professore parla di cose strane, nonostante la noia della grammatica. Imparare comincia a diventare una cosa diversa dall'avere il quaderno con i compiti in ordine. Le cose stanno cambiando, e lei comincia ad accorgersi che questo suo ritardo, non è solo un ritardo rispetto al suono della campanella, non è solo una R sul registro: mentre corre verso scuola, sta pensando che sarà sempre così. La vita corre e non s'arresta un'ora, ha letto in classe. Dobbiamo cercare di essere felici, forse è per questo che il prof la legge. Forse è questo che continuamente cerca di spiegare. 
Ma correndo, pensa che correrà sempre. Non correrà per scappare, ma per raggiungere. 
Ci sarà sempre una campanella che suona. 
Come Capitan Uncino e il ticchettio degli orologi: ma non pensa più alle favole. Corre dietro i voti, che non sono come vorrebbe. Corre dietro il sentirsi dire brava. Corre dietro lo specchio in cui si vede diversa, perché diversamente si guarda. Corre dietro gli obblighi che comincia ad imparare, e dietro i desideri che cominciano a suonare come campanelle impazzite in ogni istante e ad ogni respiro. 
I capelli scivolano nell'aria. 
Il professore sta trascinandosi in classe: parlerà delle fiabe, oggi. Antropologia e psicologia e mal di testa. Perché gli piace cercare di convincere chi lo ascolta che la vita può essere una fiaba, con i suoi protagonisti e antagonisti, con inattesi oggetti magici, aiutanti inaspettati, insperati colpi di fortuna e improvvise catastrofi, perché è tutto qui, nell'avere una storia, nel trovare il modo di raccontarla, e raccontarla significa viverla, rispettando le regole e violandole, perché finalmente sono state davvero comprese.
Enrico comincia a pensare: abbiamo tutti paura. 
E tutti desideriamo la felicità. 
E diventare grandi significa accorgersi che è impossibile essere veramente all'altezza dei propri sogni, dei sogni che so di noi sono stati fatti. 
E mentre la campana suona, pigramente trascinandosi in classe, mentre gli studenti trasportano il loro rumore del corridoio, mentre gli ultimi ritardatari correndo arrivano al cancello, pensa: siamo persi in una nave di pirati. 
Esistono isole a cui abbiamo dato nome, andandocene; di quello che verrà sappiamo sempre molto poco. 

domenica 9 maggio 2010

Lezione #3

 Lezione n° 3

Salvatore ora vive solo: deve provare a fare la spesa, visto che il cortocircuito ha fatto fondere il frigorifero. Per sei giorni ha vissuto con i surgelati che si stavano scongelando. Dapprima ha succhiato pezzetti di minestrone congelato in busta, poi ha goduto dei gamberi sgusciati e delle cozze cilene, ma alla fine ha finito anche le cipolle. Negli ultimi giorni la sua dieta a base di cipolle crude non ha giovato al suo alito né alla sua simpatia. Ma almeno egli non se ne rende conto: finalmente si decide ad affrontare il supermarket.
Una volta in strada, si ricorda che non sa quale in quale strada deve essere. Un passante si ferma per aiutarlo.

S._ Mi scusi, persona gentile. Mi chiamo Salvatore e amo le Dolomiti.
Passante_ Salve ragazzo, mi chiamo Ferdinando e non sono cristiano.
S._ Lei sa, io devo mangiare.
F._ Ma vai a lavorare, allora! Questi stranieri che vengono qui a morire di fame; almeno ai miei tempi venivano a rubarci il lavoro e a rapirci le donne. Ma non vi vergognate?
S._ Ho i soldi. Il supermarket è in fondo a questa via?
F._ Capisco. Quanti soldi hai esattamente, sei sicuro di poterci comprare da mangiare?
S._ Ecco signore: sono abbastanza soldi?
F._ Come no! Con questi puoi comprarci un bel po’ di quei magnifici surgelati che ti durano a lungo, e hanno molte vitamine. Quando è morta mia moglie lei era morta ma il minestrone era ancora perfettamente congelato, e così sarà per sempre. Vedi cosa vuol dire il progresso? Questo è un paese civile, industrializzato. In-dus-tri-ali-zzato! Capisci, figliuolo? Fammi vedere meglio questi tuoi soldi.
S._ Prego signore, lei è così gentile, e io sto benissimo, solo che devo comprare da mangiare.
F._ Ecco, guarda. Finirai per confonderti. Quando uno ha troppa possibilità di scelta poi non sa più che cosa scegliere. Ti aiuto io: guarda, questi qui ti bastano per i surgelati. Questi li tengo io, così non avrai problemi. E poi non sai che queste periferie sono piene di assassini?
S._ Assassini? Non conosco questa parola.
F._ Caro ragazzo, sono quelle persone che uccidono per denaro. Guarda, tieniti questi e vedrai che tutto andrà benissimo. La prossima volta ti offro un caffè, ti piace il caffè? Tu hai la faccia di uno che beve soltanto tè. O magari preferiresti una birra?
S._ Grazie signore, molto gentile.
F._ E’ sempre un piacere aiutare un ragazzo come te. Qui siamo quasi tutti brava gente. E’ solo che quelli cattivi non sanno di esserlo. E ora arrivederci.
S._ Scusi, ma dove devo andare?
F._ Puoi andare dove ti pare, ci troverai sempre qualcosa da comprare.
S._ Grazie.
F._ Ci vediamo in giro, scemo.

Così disse quella persona, onesta e gentile, e si allontanò attraversando la strada, superando l’aiuola di cartacce. Il giorno sembrava richiudersi alle sue spalle. E così Salvatore si mise in cammino.

Cari studenti...

Cari studenti,

è dopo un’intera estate che mi ritrovo a scrivervi. Ve lo dico subito: è l’ultima volta che vi scrivo cominciando così… “cari studenti”
Questo vuol dire che non tornerò. Non dipende dalla mia né dalla vostra volontà. Queste sono le regole del gioco. E vedete, siamo stati tutti inscritti a un gioco grande, e nessuno può veramente rispondere alle nostre domande. E allora capita di restarcene con il naso all’insù senza saper che dire, impegnati soltanto a trattenere le lacrime. Succede. Fa parte delle cose della vita.
Io vorrei solo che il signor ministro Mariastella Gelmini venisse a fare un giro qui a Manziana e ci vedesse, in piazza, insieme. E non perché qualcuno ci ha obbligato. Io non sono pagato per questo, e voi non avrete voti per questo. Eppure la scuola è tutta qui: perché è la vita che è tutta qui. E io prego che voi l’abbiate capito. Abbiate capito che quello che conta è quello che siete e sarete capaci di sentire nel cuore. Abbiate capito che non ve ne deve fregare poi molto di fare strada da soli se non siete capaci di portarvi dietro quelli che sono stati più sfortunati di voi. Abbiate capito che crescere vuol dire trovare dentro di voi la capacità di dire, quando serve, chi se ne frega della grammatica, c’è qualcuno che piange. Abbiate capito che un prof lo si può anche mandare a quel paese, purché si abbia anche il coraggio e l’onestà di stare ad ascoltare la risposta. Abbiate capito che prima di tutto è necessario capire. Capire per cambiare, se le cose non vi stanno bene. Capire per amare più profondamente, quando qualcosa vi tocca nel cuore.
Che vengano, i signori ministri, con le loro calcolatrici potenti a diecimila zeri: vengano e mi spieghino, a me, al professore che tutto sa, mi dicano loro quanto devo calcolare queste lacrime nel bilancio. Mi spieghino per bene dove sono finiti i soldi, non tanto per me, ma per voi. Dov’è il vostro futuro? Io non lo so, e non so insegnarvi ad inventarvelo. Però so che dovrete inventarvelo, perché qui siamo tutti alla bancarotta, veramente. E allora spero di avervi insegnato quello che vi serve per sognare, e costruire i vostri sogni. Vi ricordate? Dobbiamo disegnare il nostro futuro, se vogliamo avere la forza di costruirlo.
Me ne vado. Non so dove, non ancora. Ma non è importante. Credetemi, quanto voi volevo restare. Come voi ho scommesso tutto su questo, e non ha funzionato. Ma vedete, penso anche una cosa: è l’ultima lezione, ma è importante anche questa. E sono fiero, nonostante tutto, di essere io a potervi mostrare com’è quando qualcosa che è stato importante finisce.
Perché nella vita si perdono tante cose. Perderete amori e amici, e mille e mille cose molto più importanti di un prof. E quando succede che qualcosa finisca, voi potete fare solo due cose.
La prima cosa è piangere. Piangere e poi piangere. Non è una cosa stupida. Voglio dire, ci sta. Ovviamente quello che avete perso vi mancherà, e fa male pensare che non ci sia più. Però è la soluzione più semplice: piangere e piangere fino a che non finiscano le lacrime. E poi, che succede? Comunque la vita ci trascina con sé, e in qualche modo si ricomincia a camminare. E allora queste lacrime?
E poi c’è la seconda soluzione possibile: considerare bene tutto il bene che quel che è stato ci ha fatto. Considerare quante cose abbiamo imparato. E pensare che sedersi a piangere, ora come ora, sarebbe come tradire tutto il coraggio e la forza che siete stati capaci di mostrarmi. Sarebbe come dire che quello che è stato non ci è servito a niente. E io invece penso che sia servito. Penso che sono orgoglioso di avervi visto crescere fin qui. Penso che sono felice se penso che qualcosa di me vivrà in voi per sempre.
Quando penso che la vostra vita, ancora agli inizi, ancora breve, è stata in qualche modo modificata dalla mia presenza, in bene o in male, che avete scoperto dentro di voi la voglia di imparare, di essere migliori, di capire e di incazzarvi, che non vi fermerete, non smetterete di guardavi intorno con curiosità, non smetterete di cercare l’amore, di innamoravi pazzamente, non smetterete di voler essere felici, cercherete di vivere tutto quello che vi capiterà con il cuore pronto ad esultare e il cervello acceso e gli occhi bene aperti, allora, quando penso a tutto questo, io sono orgoglioso di me, e so che la mia vita non è inutile.
Non sono state inutili tutte le stupidaggini che ho combinato, le lacrime che ho versato e le risate che ho fatto. E sapete che c’è? C’è che siete stati voi ad insegnarmi che questo è il mestiere più bello del mondo, perché io arrivo a scuola sorridendo, perché con voi mi ci arrabbio davvero, come si fa solo con quelle persone a cui si vuole veramente bene, perché praticamente tutto quello che abbiamo fatto l’abbiamo fatto con allegria.
E allora, se voi mi avete insegnato questo, io penso che posso andare ovunque. Posso affrontare qualsiasi cosa senza mai perdere la capacità di sorridere, posso continuare a porre regole che già so verranno trasgredite, posso alzarmi e spiegare e rispiegare e fermare tutto e ricominciare da capo, posso fare qualsiasi cosa, posso anche fare il matto, come a volte succede.
Ma dico questo non per dire che mi sento onnipotente, tutt’altro. Quello che mi avete insegnato è che si può sbagliare. Con voi ho sbagliato molte volte. Ma non conta, e lo sapete, quante volte si sbaglia: conta che poi ci si rialza in piedi e ci si rimette a camminare.
Vi ricordate quella frase di Ghandi? Prima ci deridono, poi ci combattono: alla fine noi vinciamo.
Non dovete avere paura di chi vi dice brutti, sporchi e cattivi. E’ solo un adulto che mette su una faccia dura per cercare di tirare fuori da voi il meglio. E voi tirate fuori il meglio, e smontatelo con un sorriso. Siate strafottenti, non abbiate paura. Sentitevi bellissimi e magici e forti e invincibili. Quando vi capiterà di perdere, saprete che dovrete solo aspettare la prossima volta per rifarvi.
E non dimenticate mai che la bellezza, delle parole, della musica, dell’arte, della natura, dell’amore, dell’amicizia, di tutto quello che esiste e di tutto quello che siete capaci di sognare, è una cosa capace di domare qualsiasi mostro, di stregare qualsiasi pericolo e rendere quella belva che vi insegue mansueta come un gattino.
Perché è sempre come nelle fiabe: abbiamo solo la nostra astuzia e il nostro coraggio. Ma è quello che ci basta per scoprire un principe in un rospo.
Non perdete tutto questo solo perché io sono andato via.
E quando poi pian piano mi avrete dimenticato, verrà un giorno in cui vi accorgerete che farete uno dei miei discorsi noiosi a un marmocchio dentro un bar, o correggerete un congiuntivo, o vi ricorderete una delle mie noiose poesie, e io ci sarò. E sarà bellissimo.
Perché nessuno mai può toglierci quello che è stato.
E io, a voi, vi ricorderò per sempre.
In bocca al lupo, miei marmocchi.

Spero di incontrarvi tutti a qualche concerto rockeggiante, vedervi saltare felici, ridere.
Amate la vita.
Cogliete l’attimo. 


Gradirei spiegare...

Gradirei ricordare ai miei studenti, presenti, passati, futuri, che è giusto alzare la musica e mettersi a ballare, che non bisogna mai dare retta a chi dice "stai zitto!" a meno che questa non sia una persona a cui riusciamo a volere bene, perchè in primo luogo ce ne vuole, che l'unico modo per evitare di credere alle balle di chi apparecchia le nuove inutili guerre è quello di baciarsi, e guardare le ragazze che sorridono in quel modo così carino.
Gradirei ricordare che nessuno può impedirci di colorare. Di ballare. Di truccarci.
Gradirei ricordare loro che proprio perché possano mostrare il loro crocifisso al collo, vorrei toglierlo da un certo muro.
Vorrei raccontare loro tutte le poesie d'amore del mondo e la paura di morire, perché è di questo che è fatta la vita. Ma che è tutto quello che succede prima, che ha la massima importanza.
Vorrei ricordare loro che ognuno di noi è un mostro: e per questo unico, irripetibile, talvolta incomprensibile, magico e prezioso. Per quanto stronzo possa essere, anche. Un enigma magnifico da risolvere.
Che non bisogna smettere di domandare la felicità. Che non bisogna aver paura della risposta. Che chiedere una risposta sensata alla domanda "sono felice?" è il primo e fondamentale diritto. E che anche questo diritto ha una storia, che è in gran parte alle nostre spalle ma probabilmente in ben maggior parte davanti ai nostri occhi sbarrati ed impauriti.
Che mai siamo soli.
Che non dovrebbe esistere mai chi sta in alto e chi sta in basso.
Ed è dovere di chi sta in basso ricordarselo. E dire: adesso basta.
Che per essere al di sopra delle leggi di un dato periodo bisogna avere una grande onestà nel profondo del proprio cuore. Ma che è per questa via che le cose cambiano.
Ogni passo avanti dell'uomo è legato ad un consapevole atto di disubbidienza.
Quasi tutte le cose sono lì, solo che nessuno ha avuto il coraggio di guardarci o non ci ha ancora guardato con gli occhi bene aperti.
Gradirei ricordarei loro che sono a scuola per imparare a scrivere. E che sono fortunati per questo. Che quello che insegno, può servirgli prima di tutto per difendersi anche da me.
Che bisogna essere spensierati, senza mai essere stupidi.
E che viviamo ogni giorno per trovare qualcosa da dire.
E per regalarlo a qualcuno.

Un esame nel Nordest...

Pochi giorni fa ho sostenuto l'esame finale di un corso di perfezionamento necessario per ottenere 3 punti in graduatoria: forche caudine a cui si sottopongono ormai molti precari. Non voglio dare ulteriori precisazioni, soprattutto perché spalare discredito mi sembra uno sport faticosamente inutile, tuttavia non so resistere: all'esame eravano duecento, il costo d'inscrizione al corso è stato di 600 euro: moltiplicate e ottenete: 12000 euro. 
Cifra imbarazzante, almeno quanto l'esame. Così, preso da tutto quest'imbarazzo - intanto dovevo scrivere qualche riga sui personaggi prediletti nella Divina Commedia e sulle caratteristiche del romanticismo italiano - ho pensato: fossi un giornalista dovrei fare alcune cose.
Innanzitutto andare a verificare il bilancio di questa azienza, per scoprire meglio se il mio rapido calcolo mentale corrisponde nella realtà: se consideriamo che si tratta di un solo esame che accoglie candidati dal Veneto e dal Friuli, è facile immaginare che il totale dell'incasso per questi corsi di perfezionamento raggiunga una cifra considerevole.
Seconda cosa che un buon giornalista dovrebbe fare: andare a scoprire, spulciando il bilancio, l'entità delle spese necessarie a mandare avanti una serie di corsi on-line. Si potrebbero scoprire varie cose, anche, tiro a indovinare, spese di cancelleria per migliaia di euro.
Resta il punto cruciale, e non ho intenzione di fare un mestiere che non è il mio: un giornalista dovrebbe spiegare, io mi limito ad esprimere le mie perplessità: qualcuno sa spiegarmi come sono state autorizzate queste aziende dal ministero? Aziende che offrono dispense mal scritte - potrebbe individuarne gli errori anche uno studente minimamente smaliziato - incapaci di offire il minimo apprendimento e di verificarlo - gli esami sono una farsa, sia quelli in itinere sia quello finale - sono state autorizzate dal ministero della pubblica istruzione ad offrire corsi di perfezionamento ai docenti delle nostre scuole, corsi resi sempre più coatti considerando la politica di tagli: aziende che - è una mia sensazione - guadagnano un mucchio di euro.
Non sono un giornalista e non ho la capacità di scavare in questa storia. In fondo sono solo un professore, uno che legge libri, che prova a scriverne, che crede sia un gesto di semplice civiltà condividere pensieri e parole: non per vanità, ma per cercare il confronto, aspro o amichevole che sia, necessario alla crescita.
Sono solo un professore che fa mille sacrifici, dipendente di un ministero che non ha esitato a gettare nella fossa dei leoni la possibilità, per chi può sacrificare 600 euro del suo esiguo bilancio annuale, di guadagnare 3 punti, e volevo farvelo sapere.
A chi spetterebbe spiegare queste cose? 
A chi fare certe domande?
Mala tempora currunt.
E fine della lamentazione: sono cose che si sanno, e forse si sanno fin troppo, visto che alla fine diventano naturali.
Non mi resta che aggiungere una riflessione e una polluzione celebrale.
La riflessione: bisognerebbe andarsi a rileggere spesso Brecht, quelle pagine di "Dialogo dei profughi" dove spiega quale sia la realtà valenza educativa degli istituti scolastici. Vatti a rileggere quelle pagine, tu che leggi queste: se non le hai mai lette, cercale. Perché di tutta questa storia ne ricavo questo: che la scuola, l'intero mondo della scuola, quindi anche questi corsi di perfezionamento, serve veramente a qualcosa perché dimostra, prima ancora di insegnare, come il mondo in cui viviamo sia dominato dai giochi di potere, dagli intrallazzi, dalla meschinità. Frequentare la scuola, a qualsiasi età, è veramente un atto educativo: un corso di sopravvivenza.
La polluzione, irresistibile, è che il precariato mi sta dando - e spero non solo a me - una lezione fondamentale: quando ci tolgono il gusto di lavorare, quando ci tolgono uno stipendio su cui contare, quando mettono in crisi la nostra casa, la nostra vita, allora scopriamo che esiste altro.
Gli amici, con il loro sostegno emotivo e materiale. Persone che cercano di darsi una mano l'un con l'altro. La gioia di quei dieci minuti di lezione che riesci a fare. Un bacio. Una zuppa di finocchi. Sognare ad occhi aperti. Il rumore della rabbia che si trasforma in amore per il giro che indifferente il mondo fa. 
Le cose possono cambiare: ci hanno insegnato una certa felicità, ma ci hanno preso in giro.
Se veramente ci stiamo accorgendo di questo, le cose cambieranno.

Per sorridere e riflettere, guardatevi questo spezzone... http://www.youtube.com/watch?v=5EkVIRNr8DA

P.S. Il fatto che questo post sia stato scritto all'uscita di un convegno di chirugia estetica mi ha reso più sobrio. Buona parte delle mie facoltà sono impegnate a scrutare l'uscita di questi figuranti eleganti, pettinati, tirati a lucido, che discutono di millimetri di naso in meno, profilassi, automobili di lusso.
La chirurgia plastica mi sembra il riassunto di un mondo di infelicità: trasformare il corpo in un luogo culturale può avere valore rivoluzionario, ma trasformare un fatto culturale in valore naturale - mimetizzando i miti del momento all'interno dei nostri corpi - è proprio quello che stiamo facendo da anni e secoli.
Non avrete le mie orecchie.
Perché sono solo i miei difetti a rendermi ciò che sono: un Dumbo maligno.

sabato 8 maggio 2010

Equilibristi #4


4. 



Verrà un altro inverno 
cadranno mille di petali di rose
la neve coprirà tutte le cose 
e forse un po’ di pace tornerà.
(Amalia Gré)

Come neve bianca scenderei, 
per coprire tutto quello che sei. (Negramaro) 

La neve copre tutti, come il peccato. 
(Talmud)



Lei è una ragazza che la guardi e apri di più gli occhi, come quando nuoti allarghi bene la bocca, per catturare l'aria. 
E' entrata, apparsa, scomparsa. E' come quando d'improvviso arriva la neve. Ricordate quella volte che ha nevicato? Pensateci. Sotto quella neve tutto diventa improvvisamente più bianco, lento, morbido? I pensieri sembrano farsi fiocchi, cristalli sottilissimi che cominciano a scendere, mescolati a quel freddo, e tutto quello che si agitava fino a un momento prima si calma, le macchine si bloccano, tutti si immobilizzano, e così i pensieri scivolano lenti e tutto sembra diverso, più lento, più calmo, più dolce. 
E' successo anche a lei. Ha nevicato sulla sua testa e nel suo cuore. Perché lei ha avuto un uomo. Un uomo vero; è più grande. Sono stati insieme, come succede. Lui è pazzo di lei e lei sente questo desiderio. E accetta di lui che sia sposato, che abbia figli, che sia impegnato. Perché ogni suo bacio la fa sentire grande, forte, bella. Perché è un uomo, avventuroso e pazzo, scostante e scontroso, e le parla d'amore, quando ha voglia d'amore, e le parole volano, e si intrecciano. 
Che importa se è una colpa? Se, mentre si amano, nella notte qualcuno aspetta altrove. 
E allora nevica e le colpe cadono al suolo. L'amore è senza peccato, pensano entrambi, guardando la neve fuori dalla finestra.
E sorridono. 
Ricordate come si sorride, in queste occasioni? Perché è successo anche a voi. E se non è successo, sta accadendo ora.
Lui ascolta sua moglie che gli parla, e pensa a lei: un corpo giovane che lo fa sentire bello. Lo rende goloso. Felice. Sente in quel corpo come una primavera tiepida. E pensa di dirle: donna. E questa parola ha nuovi significati. 
Lei sente i suoi litigare, le dicono di studiare. L'università è un pianeta sconosciuto dove tutto gira veloce, dove lei ancora non ha capito cosa fare. La neve servirà anche a questo. Ricordate come tutto rallenta?
Perché succede a tutti di avvertire dentro di sé la paura di essere gli unici a non sapere dove si sta andando. La paura di sbagliare. E tutti attorno sembrano impegnatissimi a correre da qualche parte, e lei pensa che è felice di andare, camminando, ma certo non sa dire dove sta andando. Eppure lei è felice, distrattamente felice. Pensa al suo profilo. Lo disegna nell'aria della domenica pomeriggio, mentre lui è uscito a giocare coi figli. Quante parole girano in una testa in un pomeriggio? Tutte le parole del mondo, forse. Parole che dicono che amare non è una colpa. Parole che dicono: non puoi averlo. Parole che dicono: nonostante tutto, qui manchi tu. E si tocca un livido, ripensando alla macchina, alle stelle, la luna, il respiro, l'ultimo orgasmo. Si diverte a pensare dove ha sbattuto e quando. Lo tocca, per risentire nel corpo quelle emozioni nuove. Riuscire a ricordare il sapore della prima marmellata? E' così, gusto di assaporare, assaggiare, mangiare, saziarsi. Questo pensa, eppure è lontano. Lontano. Lo desidera. Eppure è impossibile. Eppure sembra irresistibile, con le sue parole, i suoi baci.
E' come ricordare una lontana nevicata. 
In una partita di scacchi non è facile capire quali siano le mosse sbagliate e le mosse giuste. Non sai mai cosa sta per accadere. Per quanto tenti di prevedere, non puoi riuscirci. Per questo scende la neve, a coprire la terra, a riempire la testa di quell'ovattata calma, per poter dire: va tutto bene. 
Tutto va bene, queste mosse fanno parte di una partita più grande. Per questo ti dici: sono felice. 
Sono innamorata.
Per arrivare alla magia di crederci davvero dimenticando le voci che da dietro le quinte della mente sussurrano preoccupazioni e dubbi. 
Perché già amori sono sbocciati e finiti. Perché questa cosa è stata attesa, sognata, desiderata, sfiorata, e poi finalmente vissuta in una sera d'estate, in una tenda mossa da un leggero vento, in un ti amo gridato, poi è finita e ricominciata altre volte, e allora quei sogni si sono trasformati in dubbi ora, e c'è la voglia di riconoscere nella mancanza, nel desiderio, nelle mani, negli odori, un significato sperato, e c'è la paura di sbagliare. 
Perché quando sei caduto una volta, ricordi il dolore sulle ginocchia e le sbucciature alle mani. 
Ma desideri correre ancora. 
Per questo ripete senza parole: sono innamorata. 
Perché lei desidera correre ancora, selvaggia, forte come la betulla, affondando le radici nella terra, lasciandosi scuotere dal vento, scorrente come acqua.  
E quella neve, nei ricordi, rallenta tutto. 
C'è dolcezza. Se lo ricorda. E il calore del desiderio. Ricorda anche questo. 
Ma rapidamente sono già ricordi.
Forse non era un peccato, ma non ha funzionato. 
Una domenica ha scritto così, prima di addormentarsi, trovando il sogno cambiato:  

Nei miei ricordi non c’è più la neve, 
il cielo una volta chiaro e limpido, sta mutando.
All’improvviso la foschia, arrivata da lontano
a cancellar quel che di te è rimasto. 
Non ricordo più come suonano
le note della tua voce, e quell’erre buffa. 
Non ricordo più il contorno del tuo viso, 
il profumo della bocca, il calore delle mani. 
Sembra soltanto il ricordo  di una vita passata 
troppo lontana, troppo distante da quella che è 
la realtà. La tua realtà, alla quale,
pur volendo, non posso appartenere. 
E senza troppe domande 
vado via, 
semplicemente.

Dalla neve alla nebbia.
E ora che è primavera, indovinate dove l'ho vista io, questa giovane donna?
In una partita, non puoi mai essere sicuro di aver commesso un errore: da una mossa sbagliata può accadere qualunque cosa. Anche di entrare in un bar, come oggi, e illuminarlo con una maschera.
Una maschera che nasconde una strega.
Perché tutti poi, come strani pedoni, camminiamo, camminiamo, e un giorno, forse, con la neve o il sole, sapremo dov'è che stavamo da sempre andando.