venerdì 4 giugno 2010

"Piccola cosmogonia portatile", Raymond Queneau

Raymond Queneau, "Piccola cosmogonia portatile"

Sarò breve, infatti è il solito tramonto e al bar fa un po' fresco, ancora. E poi la brevità è la caratteristica di quest'opera: brevitas ben ambiziosa se davvero tenta di racchiudere in sei canti la storia del mondo. Badate: storia del mondo in senso scientifico, quindi ben poco c'è di antropocentrico. Dell'umanità qui si parla così: "La scimmia senza sforzo diventò / l'uomo, che un po' più tardi disgregò / l'atomo". E questo è quanto. 
Questa è proprio la prima qualità di quest'opera stuzzica il palato. Chimica e biologia incontrano la poesia, come forse solo in Queneau può accadere: per gioco, ma con massima serietà, se è vero che si è seri solo quando si gioca come i bambini. Questa recensione è imbarazzante: come sempre accade con la "Collezione di poesia" dell'Einaudi (catalogo splendido, ma gestione ultimamente da tenere d'occhio: qui si mangiano pure lo struzzo, temo. Per approfondire, ad esempio, potete vedere qualcosa QUI): infatti la traduzione di Solmi è seguita da una guida all'opera scritta nientepopodimento che da Calvino. E allora? Cosa posso aggiungere? 
Innanzitutto qualche riflessione. Quest'opera è del 1950: più di mezzo secolo fa. Cosa c'è da notare? L'esigenza di liberarsi dal "poetese", per riprendere una parola cara al recente scomparso Sanguineti. Esigenza avvertita ben poco in Italia, paese dove il letterato umanista ancora oggi snobba la cultura scientifica, dove le parole inseguono anime vagule blandule irraggiungibili, inesprimibili, inafferrabili. L'Italia è paese di cultura simbolica, da Petrarca in avanti: simbolica nel senso di fare un gran casino all'inseguimento di qualcosa che non si raggiunge, ma c'è un segreto di Pulcinella: quel che non si raggiunge semplicemente non c'è. Mi piace riassumere questo con la dedica che Leopardi appone alla sua poesia "Alla sua donna", ovvero: "a quella che non si trova". Ora possiamo pure sorridere di Leopardi, prototipo scolastico di sfigato, ma il punto è piuttosto che una donna come quella della poesia italiana semplicemente non esiste e non può esistere. E affrontare il poetese significa anche soprattutto fare il contropelo alle parole d'amore: in Italia salterebbero fuori pulci e pidocchi.
Discorso vecchio e scontato, certo: tanto vecchio e tanto scontato da sembrare dimenticato. 
Vorrei proporvi di sorseggiare insieme l'opera, senza pretese esegetiche: per la guida alla lettura c'è, come detto, Italo.
Sorseggiamo, quindi. Ecco come si parla della nascita della luna:

"Una gran pietra tenera sen va.
Oh Luna, gioventù! Svèlta dai lunedì
i campi del Pacifico ascoltavano
le tue maree. Salve, ancora salve, o Luna:
ed è lunare quest'abisso in terra
e le acque nere. E salve, salve, Luna,
comade delle storie!"

Poesia didascalica e misterica nello stesso tempo, non trovate? E ora sentite come viene spazzata via la retorica millennaria sulla luna: (l'aveva già fatto in parte Esenin...): 

"Grosso ciottolo
volavi da leggende straziato
con una faccia tale a un lampadario
ed un aspetto molto simile a
formaggio fermentato."

Viene da riflettere sull'ambizione di una poesia didascalica nel 1950: sembra preistorica, infatti, l'idea che per diffondere una cultura scientifica sia utile scriverne una poesia. Eppure è questo, questo poema: istruzioni per l'uso della storia del pianeta. E vedremo quanta ideologia si nasconda nell'operazione. E sembra incredibile ma anche nel 2010 è utile ricordare come il motore di quella che chiamiamo storia della terra, della vita sulla terra, sia l'evoluzione: approfondite qualcosa sul "Mostro di spaghetti volante" e convertitevi, ramen e via. Evoluzione che è detta, qui: ambizione.

"La terra scopa e scompiglia, tendendo
una trappola infetta quale è detta
dell'ambizione. [...]
L'animale gonfia al massimo
la propria specie, e l'individuo - questo
povero sciocco - muore doppiamente.
Tutti quanti la Terra seppellisce."

Non è proprio questo che è mancato alla cultura italiana? E che manca tutt'ora? Affrontare il nodo delicato della superfluità dell'individuo. L'uomo non è poi tanto importante: è possibile dirlo senza sentirsi accusare di nazismo? Eppure com'è possibile governare un sistema complesso mantenendo la pretesa dell'affermazione di ogni autonoma umanità personale, per di più all'interno di un sistema basato sulla compravendita di quella stessa umanità? La natura stessa non offre garanzie all'individuo, e la vita resta comunque un gioco pericoloso, tanto che nessuno ne esce vivo.
Eppure, in questa poesia scientifica (sembra scritta con un compendio di biologia, mineralogia, chimica, zoologia sotto mano, infatti) l'uomo, rimosso, è onnipresente: nelle metafore il campo semantico d'arrivo è quasi sempre umano. Umanoide.
E così la nascita dei metalli comporta che il mercurio porti dritto a Mercurio: dalla chimica alla mitologia (qualcosa del genere è tentato in Italia da Levi, col suo "Il sistema periodico": altri libro rimosso, schiacciato dalla gloria -che diventa troppo spesso un silenziatore - della sua narrativa concentrazionaria) dall'inorganico al culturale. Non ci fermiamo sull'invocazione a Mercurio: è il cuore dell'opera, certo, ma è un cuore fin troppo manifesto per essere segnalato: sulla polemica verso il poetese, per cui si sta sempre a "paragonar ragazze / a rose" e alla domanda "e allora perché non / d'elettromagnetismo?", abbiamo già detto. Il lettore attento ci arriva da solo: legge. 
Leggiamo invece la nascita della vita, l'origine della natura: 

"Invero abbisognava
molto coraggio a quella scema e pur
cosciente nuova cellula, e davvero
autoctona, allorché la propria vita
lanciò all'assalto della morte. E se 
lo fece è perché essa non sapeva 
ancora, al tempo nel quale intraprese
una fumosa costruzione d'esseri
tutti impregnati di sua moccolosa
gloria"

La vita lanciata all'assalto della morte, con stupenda incoscienza. Perché creazione e distruzione sono intrecciati:

"lo scortecciato bruco, e pur la rondine
di piccolissimi esseri volanti
distruggitrice, e perfino il leone
che rosicchia una tigre, come la 
giraffa un'erba, negare non possono
d'essere i discendenti della cellula
unica, priva di denti ed imberbe
che scoprì che c'è gusto a divorare un vivente."

Nutrirsi è cibarsi di altre vite. Sentenza crudele che marchia d'originario peccato ogni sviluppo naturale. Ma se la creazione prevede la distruzione, è dialetticamente vero anche il contrario: 

"ma come più geniale 
ingeniere  e superbo fu quel primo
sessuato che lo schiszzo proiettò
del proprio sperma sul suo doppio femmina.
Tu voluttà, amabil drizzatrice
degli umani, che dai un buco agli esseri
per ivi eiaculare, e alle montagne 
dai la valle, e dai pure il cilindro
ai pistoni, l'infanta agli elefanti,
alle tigri il Bengala, vacca ai tori,
ed ai cicali doni la cicala,
al sol la notte, ed all'uomo la donna,
gli animali che al lor debito tempo
e luogo per tuo merito assaporano
il pianeta nel qual procreanfottendo."

Secondo me l'intera cultura umana si riassume largamente in questi due estremi: l'umanità ha reso il nutrirsi una gastronomia e il riprodursi eros. Ancora una volta la natura è vista come in controluce, specchiata in faccia all'umana cultura. Ce lo dice lo stesso Queneau: "Tu [la voluttà, nota mia], che sei dei giochi madre / e delle arti e della tolleranza".

Andiamo verso la conclusione. Compare l'uomo: ovvero, appaiono le armi: "E l'orango che vuole / del proprio stronzo un proiettile fare / non lo sa che una palle avrà ragione / di lui". Ma qui la rimozione dell'umano ha il suo colpo di coda che riassume tutta la polemica col poetese: l'apparire dell'uomo conduce, in un tempo che scientificamente è trascurabile, un battito di ciglia, agli strumenti, alla tecnica, alle macchine. 

"[...]Non
si accorgono i Romani tenebrosi
né i tenebrosi Barbari che esiste
un mondo al quale la gloria aspira:
è fatto di bulloni, di carrucole,
pulegge, bielle, cilindri, ingranaggi
e di viti." 

Macchine infine: qui riprendo direttamente le parole di Calvino, mi piace lasciare questo come retrogusto.
"Come ombre di dinosauri s'affacciano all'orizzonte le macchine calcolatrici [...] che sanno fare tante operazioni che l'uomo non può fare ma che hanno bisogno dell'uomo. L'uomo ha cura di loro e loro hanno cura dell'uomo." 
Questo poema è del 1950. Sono passati sessant'anni. Le macchine le abbiamo viste nei nostri film, amiche o crudeli. In molti casi questa profezia evolutiva l'abbiamo vista confermata: l'uomo è la sua tecnica. La storia dell'uomo è la storia dei suoi strumenti. 
Ricordarlo significa snobbare una buona volta gli umanisti parolai.
Ricordarlo significa una buona volta rammentare che la tecnica chiede un'umanità adeguata. Richiede un adattamento evolutivo.
Chiudo con una domanda: l'infanzia è l'età umana in cui si compie quest'adattamento alla tecnica. Guardate i vostri figli. Guardate come si comporatano con il cellulare e il computer, e capite cosa voglio dire. La domanda è: la storia degli ultimi tre secoli non è forse la storia di un mancato adattamento dell'uomo alle sue tecniche? 
L'ideologia dell'umano non impedisce forse lo sviluppo di una civiltà della tecnica che sappia condurci fuori dal LABORintus?

P.S. Visto che quest'opera così indigesta ce la siamo bevuta, mi piace l'idea di augurare a chi legge: salute.

1 commento:

  1. In Quenaeau mi sono imbattuto per via filosofica, e mi pare che anche qui ci sia abbondante materia.
    Ricco il commento ricchissime le citazioni. Leggo(non so quando) il testo, rileggo la presentazione, e poi azzardo (termine quanto mai adeguato) qualcosa.

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"e dico che una poesia si corregge con un'altra poesia, un corollario con un codicillo):" (E.Sanguineti)

E allora, cosa aspettate? Le parole chiamano parole...